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in copertina e all’interno, opere in sostegno a Rania Amdouni di @sirin.boubaker e @lea.djeziri

Abbiamo intervistato l’attivista Henda Chennaoui per parlare dell’arresto di Rania Amdouni e della lotta della comunità LGTBQ in Tunisia, in prima fila nelle nuove manifestazioni

Rania Amdouni, 26 anni, attivista del gruppo Damj, è stata arrestata e poi condannata a sei mesi di carcere dopo aver preso parte a proteste che chiedevano giustizia sociale e condannavano le violenze di polizia a Tunisi. Amdouni era bersaglio della persecuzione poliziesca dall’inizio di febbraio, quando è diventata una delle figure di spicco delle proteste quotidiane. In particolare, delle sue foto sono state pubblicate dai sindacati di polizia, accompagnate da commenti degradanti, e condividendo sue informazioni riservate con scopo intimidatorio, compreso l’indirizzo.

Giovedì Amdouni è stata condannata per aver “insultato” dei poliziotti mentre, a sua volta, stava cercando proprio di depositare una lamentela contro le intimidazioni della polizia. Sabato sono scattate proteste ad avenue Habib Bourguiba, in centro a Tunisi, per chiedere la liberazione di Amdouni e dei molti altri dimostranti incarcerati dall’inizio delle proteste. Infatti, dall’inizio dell’anno, sono stati arrestati più di mille attivist*, e molt* sono ancora in carcere. La settimana scorsa Human Rights Watch ha pubblicato un comunicato stampa in cui chiedeva alle Nazioni Unite di investigare sulla repressione degli attivisti LGBTQ, citando espressamente l’uso di forza eccessiva con cui sono state represse le proteste, e l’uso dei social network come strumento intimidatorio.

Abbiamo raggiunto al telefono a Tunisi l’attivista per la difesa dei diritti delle donne Henda Chennaoui.

Chi è l’attivista tunisina LGBT Rania Amdouni, perché il suo arresto è così emblematico? 

Rania è conosciuta dalla polizia perché è queer, prende parte in tutte le manifestazioni e soprattutto nelle ultime proteste è stata molto visibile. Le ostilità nei suoi confronti sono iniziate un anno fa dopo la morte di Lina Ben Mhenni (attivista tunisina, ndr), perché stava portando la sua bara con altre donne, cosa che non è permessa dalla legge islamica. Questo ha sollevato critiche tra i conservatori, e così Rania ha iniziato a ricevere minacce di morte dopo il funerale di Lina. Rania fa parte di un gruppo di venti giovani a giudizio dopo una manifestazione che abbiamo organizzato al Bardo lo scorso novembre di fronte al parlamento. Questa manifestazione è stata organizzata contro una proposta di legge che permetterebbe maggiore impunità per le forze di sicurezza. Questa proposta di legge, finalizzata nel 2015 e difesa dal sindacato della polizia, è considerata incostituzionale da parte di molti parlamentari, partiti politici e attivisti della società civile.

Eppure tutto questo sembra che non sia abbastanza per spiegare le molestie e gli attacchi che ha subito Rania? 

Le molestie contro Rania sono andate avanti negli ultimi mesi, un’aggressione fisica, organizzata da alcuni poliziotti che hanno chiesto ad altri cittadini ordinari di attaccare Rania e i suoi amici per strada solo perché sono omosessuali. Rania li ha denunciati alle autorità ma non è venuto fuori nulla. Dallo scorso gennaio, sapevamo che Rania stava per essere arrestata dalla polizia. Sapevamo che era perseguitata; era stata molestata e arrestata varie volte da poliziotti senza motivo, le chiedevano i documenti, la prendevano in giro per il suo fisico, il suo orientamento e la minacciavano. Hanno sfruttato la situazione, lei era molto stanca, moralmente e fisicamente, era esausta per questi episodi di molestie che non finivano mai. Lo scorso sabato, mentre stava denunciando queste aggressioni in una stazione della polizia, è stata accusata di “attacco alla moralità”. Il suo processo si è svolto giovedì con una forte partecipazione della società civile, dei suoi compagni, femministe, queer, militanti, ci aspettavamo la sua liberazione perché non ha commesso crimini. L’hanno accusata usando una legge arbitraria approvata durante il regime di Ben Ali e concepita per colpire i militanti, una legge ambigua che permette diverse interpretazioni da parte dei giudici. Siamo stati sorpresi di vedere una sentenza così dura: la condanna a sei mesi. Rania è una militante, è stata vittima di ogni tipo di discriminazione nella sua vita da parte della società, perché è diversa, è orfana, per il suo orientamento sessuale, per la sua povertà. Ha sofferto molto di povertà: di discriminazioni sociali, politiche ed economiche. Invece della prigione meriterebbe un premio per il suo impegno civile.

Gli attivisti LGBT tunisini hanno acquisito dei diritti dopo la rivoluzione del 2011?

Parliamo di giovani, di una nuova generazione che ha una visione intersezionale, come Saif Aydi, e tanti altri, impegnati allo stesso tempo nel militanza LGBT e nella lotta sociale e politica. È molto diverso dal passato. Questa nuova esperienza riguarda un’organizzazione che non è strutturata, non c’è un partito politico ma ci sono tradizioni che dal 2007 si sono stabilite poco a poco. Prima non avevamo l’abitudine di vedere militanti LGBT partecipare a manifestazioni politiche generaliste, le piccole esperienze si sono accumulate, il movimento LGBT dà legittimità anche ai militanti dei partiti di sinistra, come il Fronte popolare o altri: dà una dimensione nuova alle proteste nei paesi arabi. Si può vedere questa intersezionalità in strada e nel modo di formulare le richieste e le rivendicazioni politiche. Questi leader del movimento femminista e LGBT erano molto visibili a gennaio e febbraio, erano sempre là a protestare. Sono stati presi di mira dalla repressione della polizia.

L’azione più grave c’è stata contro Rania Amdouni, militante politica e LGBT da tempo, riconosciuta, con un’identità queer, obiettivo di una repressione e intimidazione da parte dei sindacati della polizia. Ma non c’è solo lei, sono tante le militanti femministe e LGBT che hanno sofferto di questa repressione, che hanno visto le loro foto pubblicate sui social network con minacce di morte, interrogati sotto tortura, arrestati senza motivo, le loro famiglie sono state minacciate dalla polizia nei loro quartieri, tutta questa repressione rende evidente la paura del ministero dell’Interno nel vedere l’intersezionalità del movimento, di vedere che i giovani che protestano sono variegati. E così la risposta del ministero dell’Interno è stata forte, questo mostra che hanno coscienza della gravità della situazione, se tutti si uniscono il movimento è veramente storico.

illustrazione @lea.djeziri

Le donne tunisine hanno ottenuto importanti risultati dopo il 2011?

Oggi il femminismo istituzionale, rappresentato da strutture come l’Associazione tunisina delle donne democratiche (Atfd) e movimenti femministi alternativi, gruppi femministi di Tunisi e della regione, la maggioranza delle femministe avanzano richieste economiche: giustizia sociale, nell’eredità. Le femministe responsabilizzano lo stato davanti a questa crisi economica che rischia di far perdere tutte le conquiste ottenute dalle donne e di bloccare le riforme, recentemente votate in parlamento come la legge 58 contro le violenze contro le donne. Nelle ultime manifestazioni, le femministe erano in prima linea, sul fronte delle manifestazioni con slogan politici che si possono riassumere in: giustizia sociale e per tutti, riforme, lotta contro la corruzione, riconoscimento dei martiri della rivoluzione.

Un documento diffuso durante le proteste di sabato

Sono tornate le manifestazioni proprio a dieci anni dalla rivoluzione del 2010-2011 che ha ottenuto la fine del regime di Zine El-Abidine Ben Ali, ci sono nuove rivendicazioni?

Tutto è iniziato con manifestazioni notturne all’inizio di gennaio, era la settimana dell’anniversario della rivoluzione in Tunisia, era stato imposto il coprifuoco per decreto governativo. Nei mesi di dicembre e gennaio in Tunisia, ogni anno ci sono manifestazioni con richieste di giustizia sociale, nei quartieri popolari di Tunisi. Sono state manifestazioni notturne non autorizzate, segnate da una completa censura mediatica, accompagnata da una repressione della polizia che si è abbattuta sui quartieri popolari, con arresti di massa di giovani, di adolescenti, arresti arbitrari, accompagnati da violenze e torture nei centri di detenzione. Il ministero dell’Interno ha accusato i manifestanti di essere dei “distruttori”. La repressione ha spinto le forze giovanili di Tunisi, i giovani attivisti della società civile e gli attivisti di associazioni informali e movimenti politici a cercare di superare i divieti e sostenere i manifestanti notturni dei quartieri popolari. Hanno iniziato a organizzarsi spontaneamente nel centro di Tunisi con marce, manifestazioni, assembramenti, per chiedere la liberazione dei detenuti e anche per rendere visibili i manifestanti dei quartieri popolari. Il 14 gennaio c’è stata una manifestazione che è partita dal sit-in dei feriti della rivoluzione a Tunisi. Erano lì per chiedere finalmente un riconoscimento ufficiale da parte dello stato che tarda ad arrivare nonostante siano passati dieci anni. Queste manifestazioni sono continuate fino a metà febbraio. Come al solito, si tratta di manifestazioni non completamente organizzate, con attivisti della società civile, giovani con una configurazione mista: attivisti LGBTQ, femministe, giovani impegnati contro la legge 52 che criminalizza i consumatori di cannabis, Ultras o giovani sostenitori di squadre di calcio che sono uno degli obiettivi preferiti della repressione della polizia, ci sono studenti, laureati disoccupati, sindacalisti, c’è di tutto. Sono molto determinati a rompere le barricate costruite dal ministero dell’Interno che dal 2014 impedisce i movimenti, soprattutto in via Habib Bourghiba, la strada da dove è partita la rivoluzione il 14 gennaio 2011. Si tratta di un movimento che non ha un’identità politica chiara, porta avanti richieste di riforme economiche, soprattutto a Tunisi, giustizia fiscale, riforme per cancellare politiche di austerità non giustificate, lotta alla corruzione. I giovani sono scesi in strada al fianco dei marginalizzati non solo nei quartieri popolari ma in tutta la regione. Abbiamo visto anche una mobilitazione da parte dei contadini, per la prima volta si sono organizzati contro le misure di austerità e la privatizzazione dell’agricoltura in Tunisia.

Come è stata affrontata la pandemia dalle autorità tunisine a livello sanitario? È stata usata come pretesto per reprimere il dissenso?

Da un anno, non abbiamo visto una strategia chiara contro il Covid, non abbiamo alcuna strategia per sostenere i più marginalizzati durante la crisi né a livello sanitario né economico, non abbiamo idea sulla volontà dello stato di costruire una strategia per affrontare la campagna vaccinale. I tunisini sono lasciati a loro stessi e non possono contare sullo stato. Gli ospedali non sono equipaggiati, lo stato non negozia con il settore privato per aiutare il settore pubblico nella crisi sanitaria. Coprifuoco e stato di emergenza sono usati per evitare i movimenti sociali nel paese in seguito alla crisi del potere d’acquisto e con l’aumento dei disoccupati e di chi sta per perdere il suo lavoro.

Qual è stato l’impatto sociale della pandemia sulle donne tunisine?

Le conseguenze della pandemia per le donne tunisine sono state catastrofiche. La situazione economica per le donne, che hanno perso il loro lavoro, e anche la loro capacità di produzione, le loro terre, le loro proprietà, fenomeno sempre presente, ma accentuato dalla pandemia. Hanno subito ogni tipo di violenza, fisica, familiare, economica, ogni tipo di discriminazione verso le donne è cresciuta, raddoppiata: il numero di donne vittime di violenze domestiche è moltiplicato per sette, e le donne che hanno perso il lavoro nell’ultimo anno con il Covid-19 sono triplicate. La situazione è molto caotica per i diritti delle donne, già minacciati da tempo. In termini generali, più le donne sono fragili più sono esposte durante le crisi, non è facile la situazione odierna per le donne, soprattutto a livello economico, ma non solo, parliamo di ogni tipo di discriminazione, e violenza che è moltiplicata nell’ultimo anno. Tuttavia, ci sono molte iniziative di “solidarietà di comunità” a cui ho assistito durante il primo lockdown e in seguito, direttamente organizzate da donne. Questo succede a livello di quartiere, soprattutto nei quartieri popolari, a Tunisi e nei dintorni, dove posso testimoniare di azioni di solidarietà, non solo tra donne, ma che coinvolgono famiglie, bambini, uomini, tutti, organizzate dalle donne o nelle quali le donne sono molto attive, portando soluzioni attraverso la solidarietà alla crisi sanitaria.

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