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in copertina, foto via Twitter

Un mese dopo il colpo di stato il movimento di protesta del Myanmar continua a resistere contro un’oppressione sempre più violenta. Ma chiedere il ripristinio dello status quo — proprio quello che ha reso possibile il golpe — non basta per salvare il paese

Lo scorso primo febbraio, in Myanmar, l’esercito ha sciolto il parlamento e arrestato i leader politici del NLD, il partito di Aung San Suu Kyi, prendendo direttamente il controllo del governo. Le proteste sono scattatate immediatamente, ma inizialmente non hanno incontrato forte resistenza da parte delle autorità e delle forze dell’ordine. Poi, due settimane fa, progressivamente la repressione si è fatta sempre più violenta,  fino ad arrivare alla strage dell’altroieri, quando in un solo giorno sono state uccise più di 30 persone.

Si possono dividere le proteste in due parti: da un lato, il movimento di disobbedienza civile, coordinato da sindacati e gruppi studenteschi — un fronte unico che unisce minatori, operai, infermieri e studenti universitari; dall’altro ci sono tantissime persone scese in strada senza una forte organizzazione, dimostrando coraggio ma mettendo soprattutto a repentaglio la propria vita. Non per niente, tra le misure più aspre attivate dalla giunta c’è stata la messa al bando di tutti i sindacati.

il ritaglio di giornale in cui è annunciata la messa al bando dei sindacati

Dopo la sollevazione 8888, la ribellione è a tutti gli effetti un mito fondativo per chi protesta in Myanmar, e infatti, nonostante il sangue versato nelle strade, le proteste non si fermano. Ma la mancanza di una struttura, per mancanza di un miglior termine, rivoluzionaria, mette a repentaglio qualsiasi vittoria immaginabile per la sollevazione.

Nella seconda metà dell’episodio cerchiamo di ricostruire rapidamente i punti più importanti della storia del paese, per spiegare come l’esercito del paese sia riuscito a costruire a tutti gli effetti uno stato nello stato — controllando una banca, diversi media, producendo… una birra — e come la figura di Aung San Suu Kyi sia irrimediabilmente compromessa, lasciando il paese senza futuro.

Show Notes

In questa puntata sono con voi: Stefano Colombo @stefthesub e Alessandro Massone @amassone. Per non perderti nemmeno un episodio di TRAPPIST, abbonati su Spotify e Apple Podcasts.

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