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in copertina, foto via Facebook di USB Cosenza, scattata durante una manifestazione dello scorso ottobre per il mancato pagamento delle indennità già maturate

Riformare i tirocini curricolari e spingere verso i contratti di apprendistato: la proposta dei Giovani Democratici di Milano affronta alla radice i problemi dell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Ma il Pd è all’ascolto?

“Ad un colloquio per un tirocinio mi hanno espressamente detto che erano richieste 14 ore di lavoro al giorno. Quando ho chiesto a quanto ammontasse il rimborso spese mi hanno detto: ‘Non sappiamo se è previsto.’”

“Si sono lamentati della mia non collaborazione a distanza… mentre ero ricoverata in ospedale.”

“Quando ho interrotto lo stage mi è stato detto che ho fatto bene a trovarmi un altro lavoro in quanto loro non mi avrebbero mai offerto più di un part-time e, in quanto donna, io avrei dovuto seguire la famiglia e quindi non avrei dovuto trovare un vero lavoro, ma solo qualcosa per passare il tempo.”

Queste sono alcune delle testimonianze raccolte dai Giovani Democratici di Milano in un questionario elaborato negli ultimi mesi assieme alla pagina Lo Stagista Frust(r)ato per documentare la situazione degli stagisti italiani: un migliaio di intervistati hanno condiviso le proprie testimonianze sui primi approcci al lavoro. Il risultato è uno spaccato assai deprimente dove le idiosincrasie professionali italiane si uniscono in un quadro di precariato e sfruttamento diffuso. 

Per i giovani alle prese con le prime esperienze lavorative, l’orizzonte dello stage è conosciuto e temuto, tanto che spesso è affrontato con una non velata disillusione – almeno stando alla narrazione condivisa dalle realtà associative e politiche che hanno fatto dell’emancipazione generazionale la propria cifra attivistica. Eppure, nei luoghi nevralgici del potere decisionale, i problemi legati agli stage non sono quasi mai contemplati. Quello del tirocinio è un tema nebuloso di cui spesso non si tiene conto nei ragionamenti di sistema sul mercato del lavoro; quelli – per intenderci – che guidano l’azione dei grandi partiti o dei sindacati confederali e che coprono la quasi totalità della copertura giornalistica sui temi del lavoro. 

In Italia, l’unica esperienza notevole in questo senso è stata la testata online La Repubblica Degli Stagisti, nata nel lontano 2009 per volontà della giornalista Eleonora Voltolina, che è riuscita nel giro di un decennio ad aprire un dibattito serio sul tema; un impegno molto apprezzato da stakeholder e policymaker, almeno nella bolla milanese. Per il resto, le grandi crisi aziendali di solito appassionano più delle miserie dei neolaureati.

A contribuire alla mancanza di copertura mediatica e istituzionale c’è sicuramente il fatto che la materia sia ostica da un punto di vista normativo e che, più semplicemente, manchino i dati. Non esistono infatti rilevazioni regionali o nazionali, tanto meno un monitoraggio del Ministero dell’Istruzione, riguardo ai tirocini curriculari – quelli svolti durante un percorso di studio. La sopracitata Repubblica degli Stagisti stima che siano tra i 150 mila e i 200 mila ogni anno. A questi si aggiungono i circa 355 mila stage extracurriculari – quelli svolti al di fuori degli studi – registrati dal Ministero del Lavoro (dato aggiornato al 2019). Se contiamo che nel 2019 i laureati in Italia registrati ad AlmaLaurea sono stati oltre 290 mila e che lo stage è ormai diventato uno strumento imprescindibile per entrare nel mondo del lavoro, pare ancora più anomalo che quello dei tirocini rimanga un tema laterale nel dibattito pubblico.

Il percorso dello studente/neolaureato sembra dunque già prestabilito e passa per le forche caudine del tirocinio. Ciò sarebbe quasi auspicabile (tralasciando le criticità indicate dal sondaggio di cui sopra) se effettivamente la strada garantisse o quanto meno rendesse concreta la possibilità di essere assunti. Al contrario, il sentiero da percorrere è tutt’altro che agevole e spesso si conclude semplicemente nel parcheggio della disoccupazione da dove era partito: il Rapporto di Monitoraggio Nazionale in Materia di Tirocini Extracurriculari dell’ANPAL sui dati 2014-2017 mostra infatti come solo un quarto dei tirocinanti venga assunto dall’azienda ospitante entro 6 mesi dalla fine del tirocinio. Insomma, attenendosi ai dati, pare che le aziende formino con fatica personale che poi non assumono. Un controsenso, se non fosse che invece i dati seguono una certa logica che inquadra una più ampia tendenza delle aziende italiane; ovvero quella di adibire sempre più spesso posizioni nel loro organico interamente a stagisti. E questo senza rispettare la normativa, che vieta l’uso del tirocinio per attività che sarebbero appannaggio del lavoro dipendente. 

Ma allora, se tanto gli stagisti lavorano come dipendenti, perché non agevolare i percorsi formativi nell’alveo del lavoro subordinato? L’idea è venuta ai Giovani Democratici di Milano che, in seguito al questionario sulla situazione degli stagisti, hanno lanciato una proposta di riforma dei tirocini e dell’apprendistato collegata a una petizione online che ha raggiunto in poche settimane più di 30 mila firme. Il disegno di Legge è stato depositato la scorsa settimana alla Camera dei Deputati da Chiara Gribaudo (Pd) e in sostanza punta a riordinare le normative che riguardano le esperienze per accedere al mondo del lavoro. In particolare, si chiede di limitare il tirocinio al percorso di studio, unificando il tirocinio curriculare ed extracurriculare. Lo spunto è quello della p.d.l. Ungaro depositata alla Camera nel 2018, aggiustata per essere integrata alla proposta dei GD Milano: si prevede quindi un’indennità obbligatoria minima (attualmente non prevista per i tirocini curriculari) e un’attivazione dello stage fino a qualche mese dopo il conseguimento del titolo di studio. 

Da un lato il tirocinio, che ora è sempre più spesso una sacca di sfruttamento e precarietà, rimarrebbe uno strumento utile per la formazione durante gli anni di studio, mentre dall’altro si riforma quello che diventerebbe l’unico strumento per inserire di fatto i giovani nel mercato del lavoro: l’apprendistato professionalizzante. La differenza fondamentale tra le due esperienze è che il tirocinio non concede alcuna tutela, mentre con l’apprendistato sono presenti tutte le tutele del contratto di lavoro dipendente: retribuzione, contributi, copertura assicurativa per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, le malattie, l’invalidità e la vecchiaia, la maternità, l’assegno familiare e il sussidio di disoccupazione in caso di licenziamento.

L’apprendistato, per come è stato concepito, dovrebbe già essere di per sé la modalità prevalente per i giovani di ingresso nel mondo del lavoro. Ma ciò non accade. Il suo insuccesso è attribuibile in parte alla concorrenza sleale del tirocinio (meno costoso e meno vincolante per le aziende), in parte a una rigidità normativa che spesso ne scoraggia l’attivazione. In un articolo pubblicato su Domani, il responsabile lavoro dei GD Milano spiega che, secondo molti datori di lavoro coinvolti nella ricerca da cui ha preso forma la proposta, “la competenza concorrente di stato e regioni in materia rende farraginosa l’attivazione [dell’apprendistato ndr], la formazione è spesso di complessa gestione, e la durata può arrivare a tre o cinque anni molto più del tirocinio che ogni sei mesi va rinnovato.”

Per rilanciare l’apprendistato servirebbero quindi alcuni aggiustamenti, a partire dallo snellimento delle procedure burocratiche per l’attivazione, che ad oggi comprende ben 11 fasi ed è differenziata per settore. I GD Milano chiedono anche di inserire nel contratto due ulteriori finestre di uscita, ad esempio a 1/3 e a 2/3 del rapporto, dando flessibilità ai datori di lavoro ma offrendo al contempo uno sgravio contributivo che aumenta all’aumentare della permanenza dell’apprendista e permette quindi di evitare che le nuove finestre generino situazioni di precarietà. 

L’ausilio di clausole di stabilizzazione che disincentivino i datori di lavoro a non convertire l’apprendistato in tempo indeterminato, assieme a un’attenta azione di controllo e monitoraggio e alla messa punto di una retribuzione minima crescente simile a quella già prevista in alcuni Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), sarebbero gli ultimi tasselli per riformare l’apprendistato e renderlo, nei fatti, la strada maestra verso il lavoro.

La proposta dei GD di Milano è molto ambiziosa e forse per la prima volta riesce ad andare dritta al punto della questione, ovvero alla concorrenza tra tirocinio e apprendistato, che in questi anni è stata tutta a favore del primo, con ricadute significative sui giovani. Peraltro la materia non è una novità, e infatti nel 2010 la Repubblica degli Stagisti aveva già proposto di legare il numero massimo di tirocinanti ospitabili al numero di apprendisti presenti in azienda. Un’idea che poi non era stata colta da nessuna regione. 

Oggi il disegno di legge dei GD Milano ha dalla sua parte una fetta del Partito Democratico e trova consensi anche tra Cinque Stelle, Italia Viva, fino a +Europa e LeU. Lo stesso segretario Zingaretti figura tra i firmatari della proposta. Per il primo partito del centrosinistra sarebbe davvero uno spreco non sfruttare la posizione del vice segretario Orlando al Dicastero del Lavoro per gettare sul tavolo delle riforme anche quella dei giovani dem su tirocini e apprendistato.

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