La lotta della Casa delle Donne Lucha y Siesta non si ferma

Tra l’ostilità della giunta Raggi e le promesse disattese della Regione, le attiviste continuano a difendere lo spazio che da dodici anni offre rifugio a donne e bambini vittime di violenza, con l’idea di trasformarlo nel primo “bene comune transfemminista” di Roma.

La lotta della Casa delle Donne Lucha y Siesta non si ferma

in copertina e all’interno, foto dalla galleria Facebook di Lucha y Siesta

Tra l’ostilità della giunta Raggi e le promesse disattese della Regione, le attiviste continuano a difendere lo spazio che da dodici anni offre rifugio a donne e bambini vittime di violenza, con l’idea di trasformarlo nel primo “bene comune transfemminista” di Roma

Sulla facciata della storica sede del Messaggero e sul Campidoglio. Sull’albero di Natale di Piazza Venezia e sulla sede della Regione Lazio in via Cristoforo Colombo. Sul ministero della Salute e quello dell’Istruzione, ma anche sull’ospedale Fatebenefratelli dell’isola Tiberina. E poi, naturalmente, sull’edificio che ha dato origine a tutto, in via Lucio Sestio, nel VII municipio di Roma.

Negli ultimi giorni sono comparse in rete decine di fotografie che ritraggono luoghi chiave della capitale illuminati da un segnale che i movimenti femministi della città hanno imparato a conoscere e fare proprio nell’ultimo anno: la maschera della luchadora, simbolo della lotta per la sopravvivenza che la Casa delle Donne Lucha y Siesta combatte da oltre un anno. Questo artistico flash mob – digitale ma non solo – aveva il ruolo dichiarato di ricordare a tutti che questo spazio autogestito è ancora in pericolo, nonostante le promesse della politica regionale. Così come sono sempre in pericolo le donne e i bambini che fuggono da situazioni di violenza e faticano a trovare rifugio in una città che conta poche decine di posti di accoglienza per quasi tre milioni di abitanti.

Partiamo dall’inizio. È il 2008 quando un gruppo di donne entra in un vecchio stabile della società di trasporto pubblico di Roma — quell’ATAC che anche chi non visita spesso la capitale conosce anche solo per l’assurda storia degli autobus che prendono spontaneamente fuoco. L’edificio risale al 1923, quando sulla via Tuscolana correva un tram poi sostituito dalla metro, ma è dismesso dagli anni Settanta. Dentro non c’è che immondizia e qualche scartoffia, ricordano le attiviste. Rinominato Casa delle Donne Lucha y Siesta — facendo l’occhiolino alla via Lucio Sestio dove si trova — nei dodici anni successivi ha dato vita a un ecosistema prezioso e difficile da definire con precisione.

Certo, è un centro di accoglienza per vittime di violenza domestica che, per molto tempo, ha messo a disposizione più della metà di tutti i letti disponibili a questo fine nel territorio di Roma, arrivando ad accogliere 142 donne e 62 minori. Ma è anche uno sportello antiviolenza che ha assistito oltre 1200 persone, un centro di psicologia clinica accessibile a chiunque, una piccola ludoteca per bambini. Offre corsi di formazione per operatrici antiviolenza, rassegne cinematografiche e presentazioni di libri, dibattiti politici, progetti di inclusione sociale e spettacoli teatrali. In breve, “tutto ciò che è contrasto alla violenza dal punto di vista culturale,” riassume l’attivista Cristiana Cortesi, “perché la violenza si contrasta sia offrendo supporto alle donne in fuoriuscita da percorsi di violenza sia costruendo un clima in cui la violenza non ha più spazio.” Un lavoro di volontariato dal valore incalcolabile — che qualcuno stima abbia fatto risparmiare all’amministrazione locale oltre 6,7 milioni di euro negli anni.

A complicare il tutto arriva un piano di Concordato preventivo, ideato per tentare di salvare ATAC dalla propria montagna di debiti. Una delle misure previste è quella di vendere il patrimonio immobiliare non funzionale, misura con cui la municipalizzata conta di guadagnare almeno 92 milioni di euro. Una piccola frazione di questa somma, 2 milioni, verrebbe intascata vendendo l’edificio di via Lucio Sestio: “Una goccia nel mare di debito,” la definisce Cortesi. “Abbiamo insistito affinché il comune decidesse che, anche se la Casa non era funzionale al trasporto pubblico, è funzionale alla vita della città. Ma non hanno voluto sentir ragione,” racconta.

Nel febbraio 2019 alla Casa delle Donne arriva una lettera che annuncia che devono pagare 2,5 milioni di euro o prepararsi per lo sfratto. Da allora per le attiviste di Lucha si è aperta una nuova battaglia, non senza colpi di scena: manifestazioni e crowdfunding per comprarsi la Casa, campagne di sostegno in cui 600 fumettisti riempiono la città di disegni di lottatrici latinoamericane, la scritta #vendesiRoma proiettata su monumenti come Pantheon e Bocca della Verità — e una costante ostilità della giunta capitanata da Virginia Raggi. Il tutto si inserisce infatti in un più grande braccio di ferro politico che vede il Movimento 5 Stelle romano opporsi alla Regione Lazio di Nicola Zingaretti che il 21 dicembre 2019 ha stanziato 2,4 milioni per Lucha.

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Nei dodici mesi che sono passati da allora, nulla è cambiato. Il 25 febbraio 2020 il comune dispone l’interruzione delle utenze dello stabile, che non vengono però staccate dopo le proteste di attiviste e abitanti del quartiere. Virginia Raggi si rifiuta di ricevere operatrici e attiviste che chiedono la revoca del distacco delle utenze. La maggior parte delle donne ospitate dalla casa deve però cominciare a cercare un altro posto dove stare: qualcuna viene spostata in altre strutture, in poche rimangono, altre si trovano senza un luogo dove rifugiarsi.

La pandemia, intanto, complica le cose. “La casa non ha mai smesso di lavorare un solo giorno: lo sportello era attivo e il telefono ha continuato a squillare per tutto il lockdown,” racconta Cortesi. “A maggior ragione perché durante il lockdown tante persone avevano bisogno di trovare una soluzione fuori dalle mura domestiche dov’erano costrette in situazione di violenza.” La Casa riesce ad accogliere ancora una volta qualche donna — pur mantenendo le ovvie misure di distanziamento, garantendo ad ognuna un bagno e una cucina propria. Nel frattempo si tiene la prima asta: la regione Lazio, che aveva promesso di parteciparvi per rilevare l’immobile, la diserta. La seconda non c’è ancora stata.

“La casa non ha mai smesso di lavorare un solo giorno: lo sportello era attivo e il telefono ha continuato a squillare per tutto il lockdown”

“A distanza di un anno dalla campagna e dall’annuncio della regione, versiamo in una situazione identica a quella dell’anno scorso: l’immobile è all’asta, ci vivono delle donne, le attività continuano ma non abbiamo nessuna rassicurazione se non un impegno della regione ad acquistarla. Un impegno che ha uno stanziamento di bilancio, quindi un impegno concreto,” riassume l’attivista. “Ma è pure vero che uno dopo un anno comincia a preoccuparsi.”

Eppure, rimangono ottimiste. “Stiamo lavorando a una cosa interessante,” racconta. “Lucha non può andare a bando come se fosse un posto qualunque, ne va riconosciuto il passato, 12 anni di esperienza. Ne va presa in considerazione la peculiarità. Quindi, dato che la regione Lazio ha una legge sui beni comuni che prevede che delle esperienze particolari possano stabilire con l’amministrazione dei patti di collaborazione fondati su una dichiarazione d’evidenza pubblica, abbiamo iniziato un processo di partecipazione in cui chiamiamo la comunità a scrivere collettivamente il regolamento di autogoverno e la dichiarazione d’evidenza pubblica. L’idea è che Lucha venga riconosciuta come primo bene comune transfemminista della città, e come tale segua un iter di regolarizzazione.”

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Si tratterebbe di una vittoria notevole, dato il contesto: negli ultimi anni l’amministrazione ha mostrato crescente ostilità nei confronti delle realtà che sfuggono alla sua diretta autorità, preferendo agire da esattrice piuttosto che riconoscere il valore di progetti che spesso vanno a supplire alle mancanze dello stesso governo locale. Esemplare è il caso di un’altra Casa delle Donne — quella Internazionale di via della Lungara, che dal 1987 promuove politica e pratica femminista offrendo al contempo servizi culturali, legali e socio-sanitari. Un luogo simbolico, parte della “migliore storia democratica della città,” come ricordano le sue attiviste. Anche questo impegnato in una guerra all’ultimo centesimo con la giunta Raggi in cui si è inserito addirittura il parlamento.

Ad essere già stato sgomberato è un altro luogo di cultura dall’enorme valore: il Nuovo Cinema Palazzo, nel cuore di San Lorenzo. Occupato per impedire la realizzazione di un casinò, negli ultimi anni il Nuovo Cinema aveva contribuito a creare cultura nel cuore di un quartiere che deve far fronte da una parte alla gentrificazione strisciante, dall’altra alla delinquenza. Se l’azione è stata decisa dal prefetto della capitale, ha fatto molto discutere un commento della sindaca, che ha ringraziato la prefettura per l’azione al Cinema Palazzo così come per lo sgombero della sede di Forza Nuova, avvenuta lo stesso giorno. “A Roma le occupazioni abusive non sono tollerate. Torna la legalità.”

L’ANPI ha riassunto perfettamente lo sconcerto provocato da questa riflessione: “I due sgomberi sono stati eseguiti contemporaneamente quasi si potessero equiparare e reciprocamente giustificare, con un fuorviante messaggio di intransigenza contro ‘opposti estremismi’. Il fascismo non è questione di opposti estremismi. Fascismo ed esperienze collettive di socializzazione e cultura non sono equiparabili.” Messa all’angolo, la sindaca ha annunciato la volontà di aprire un tavolo di negoziato con residenti e attivisti, ma la questione resta in sospeso.

“Essere al governo di una Regione o di una grande città significa dover far fronte a realtà complesse, analizzandole e tentando di far chiarezza fissando delle regole che tengano conto di ogni singola situazione. Per tutto il suo mandato, la sindaca non ha saputo dialogare in modo efficace con i movimenti sociali, tra i quali quello che vede oltre diecimila persone in lotta per il diritto all’abitare sempre più negato in una città decisamente in preda alle dinamiche perverse del capitale immobiliare,” ha scritto Fabio Marcelli sul Fatto Quotidiano parlando dello sgombero del Nuovo Cinema Palazzo. La stessa incapacità di dialogare si rispecchia nel caso di Lucha y Siesta.

“Una delle prime campagne che lanciammo chiedeva una Casa delle donne in ogni municipio: secondo noi una città grande e complessa come quella di Roma ha bisogno di un presidio territoriale in ogni territorio,” spiega Cristiana Cortesi. A maggior ragione dato che nell’ultimo anno il numero di richieste d’aiuto da parte di donne costrette a stare a stretto contatto con compagni violenti, lontane da reti d’aiuto fatte di amici e familiari, non ha fatto che crescere.

“Noi non vogliamo supplire alle mancanze, vogliamo incalzarle. Ma al momento ci troviamo in una situazione in cui ci telefonano delle persone a cui noi non riusciamo a trovare una sistemazione.” 

Per realizzare le promesse che vengono fatte ogni 25 novembre, ogni 8 marzo, secondo l’attivista è fondamentale imparare dall’esperienza: “Abbiamo costruito uno spazio che va incontro a questa grande mancanza di posti, un team di operatrici esperte. Esiste un know-how delle associazioni femministe, che hanno un’idea situata della violenza. Esiste una conoscenza del mondo femminista di cui va tenuto conto. Su questo incalziamo le istituzioni.” In attesa di capire che ne sarà del luogo a cui hanno consacrato dodici anni di lavoro.

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