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in copertina, Hannah Nelson, la fotografa diciottene aggredita dalla polizia

La nuova legge proposta dal partito di Macron estende i poteri della polizia e ostacola il lavoro dei giornalisti, mentre gli episodi di violenza poliziesca sono in continuo aumento

Una fotografa diciottenne trascinata a terra per i capelli, ammanettata, un ginocchio contro la schiena. Poi arrestata. Manifestanti inginocchiati colpiti direttamente dal getto degli idranti delle forze dell’ordine. Giornalisti privati dell’equipaggiamento protettivo. Poi manganellate e gas lacrimogeni. Il tutto mentre agli osservatori della Lega dei Diritti Umani veniva negato l’accesso alla manifestazione.

Succedeva tutto a Parigi il 17 novembre, giorno di apertura delle discussioni parlamentari sulla proposta di legge “Sécurité Globale,” che andrebbe a rafforzare i diritti della polizia francese. Violenze simili si sono ripetute qualche giorno dopo, il 21 novembre, quando in migliaia tra giornalisti, studenti e gilet gialli sono scesi in Place du Trocadéro – su cui si affaccia il Palais de Chaillot, dove nel dicembre 1948 fu adottata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite. Anche in questo caso la polizia non ha esitato a reprimere la folla con idranti, gas lacrimogeno e manganelli – come d’altronde è da anni la norma nelle manifestazioni che regolarmente investono la Francia. 

Nelle stesse ore, in una Assemblée Nationale barricata, veniva adottata quella che è con ogni probabilità la proposta di legge più controversa della presidenza Macron – una legge che il governo di Jean Castex ritiene tanto impellente da richiedere la procedura accelerata, che riduce i tempi del dibattito sul testo. 

Denominata “Sécurité Globale,” la proposta è pensata, secondo i legislatori di En Marche che l’hanno scritta, per affrontare le “nuove sfide per la sicurezza francese” proteggendo forze dell’ordine che si sentono sempre più minacciate. Estendendo i poteri sia della polizia municipale che del settore della sicurezza privata, il disegno di legge aumenta in modo inquietante l’arsenale di sorveglianza di massa a disposizione dello Stato francese, tra droni e accesso preferenziale alle telecamere di sicurezza. 

Ma ad allarmare i media al punto da convincerli a scendere in strada non come semplici reporter ma come effettivi manifestanti è un articolo in particolare: il numero 24, che introdurrebbe fino a un anno di reclusione e una multa massima di 45 mila euro per chi “diffonde con qualsiasi mezzo l’immagine del viso o di qualsiasi altro elemento identificativo di un ufficiale della polizia o della gendarmeria nazionale impegnato in un’operazione di polizia, con lo scopo di danneggiare la loro integrità fisica o psicologica.” Secondo i sostenitori del decreto legge – tra cui figura, in primo piano, il controverso ministro dell’Interno Gérald Darmanin – è un modo per tenere fede allo slogan “vogliamo proteggere chi ci protegge.” 

Per i detrattori – tra cui si contano giornalisti e fotografi, attivisti, e istituzioni internazionali come il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e Reporter Senza Frontiere – è poco meno di una legge bavaglio. 

A inquadrare senza mezzi termini quella che assume sempre di più le tinte di un’opera del teatro dell’assurdo ci ha pensato il direttore di Le Monde Jerome Fenoglio in un editoriale. “Gli effetti disastrosi delle cattive leggi si manifestano molto raramente prima della loro adozione da parte del Parlamento. È il caso, invece, del disegno di legge per la ‘sicurezza globale.’ L’esame di questo testo è appena iniziato in Assemblea nazionale e già gli eccessi che esso consente, i secondi fini che contiene, si sono rivelati apertamente, nelle parole e nei fatti, per le strade di Parigi,” ha scritto Fenoglio. “Nel giro di poche ore, durante una manifestazione contro questo testo, i giornalisti sono stati intimiditi verbalmente, bloccati nel tentativo di svolgere il loro lavoro e messi sotto custodia dalla polizia. A queste azioni della polizia, che sono di pessimo presagio, si sono aggiunte le parole del ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, che ha espresso l’auspicio che ora i giornalisti si rivolgano alle autorità prima di coprire una manifestazione.”

La parola con la V

la protesta di sabato 21 novembre a Parigi. Foto via Twitter @LoperJune

“Solamente negli anni Dieci i principali quotidiani hanno finalmente accolto il concetto di ‘violenza della polizia,’ ​​anche se tra virgolette, come per mettere in dubbio la sua validità. Solo l’11 gennaio 2020 Le Monde ha cominciato a parlare apertamente di ‘ciò che può essere descritto solo, senza virgolette, come violenza della polizia.’ Il numero di persone uccise dalla polizia francese è più che raddoppiato negli ultimi cinque anni, arrivando ora a una media di 25-35 morti all’anno. Le vittime sono ancora principalmente minoranze etniche e classe operaia,” ha scritto sul Guardian il ricercatore Mathieu Rigouste, autore di La Domination Policière (2013). 

Era il gennaio 2020. La Francia aveva da poco attraversato il lunghissimo periodo di contestazione dei gilet gialli: un periodo di crescente brutalizzazione dei rapporti tra forze dell’ordine e manifestanti, conclusosi con quattro morti e centinaia di feriti (decine dei quali hanno perso definitivamente occhi e arti per mano degli agenti). Nessuno conosceva ancora il nome di George Floyd. Pochi giorni prima, però, il Paese aveva dovuto fare i conti con l’uccisione di Cédric Chouviat, morto il 5 gennaio dopo essere stato soffocato da dei poliziotti che l’avevano fermato per un reato stradale. Chouviat aveva urlato “Sto soffocando” sette volte prima di perdere i sensi. 

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La storia recente della Francia abbonda di casi di evidente violenza della polizia culminati, nella schiacciante maggioranza dei casi, in una totale impunità. A complicare le cose per gli agenti che altrimenti potrebbero farla franca (e spesso ci riescono comunque) sono fotografie e riprese dell’accaduto. Basti pensare allo scandalo che ha coinvolto Alexandre Benalla, collaboratore di Macron incriminato per avere illecitamente fermato e aggredito dei manifestanti, travestito da ufficiale di polizia. In questo contesto, l’articolo 24 della nuova proposta di legge “ha un solo obiettivo: aumentare il senso di impunità delle forze dell’ordine e rendere invisibile la brutalità della polizia,” ​​sottolinea Emmanuel Poupard, segretario generale dell’Unione nazionale dei giornalisti.

Se il testo della legge afferma che deve sussistere una chiara intenzione di danneggiare psicologicamente o fisicamente l’agente immortalato, la Federazione Europea dei Giornalisti ha inquadrato il problema con molta chiarezza. “Come stabilito nel Press Freedom Police Codex basato sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,” scrivono, “i giornalisti dovrebbero avere il diritto di identificare il personale di polizia individuale e di documentare e riferire sul lavoro delle forze di polizia. L’inclusione nel progetto di legge dell’intenzione di causare danno non è una salvaguardia sufficiente. In primo luogo, non impedisce al pubblico ministero di esaminare casi in cui l’intento del giornalista è sconosciuto, lasciando che sia il tribunale a decidere sulla questione. Man mano che il caso avanza, il giornalista interessato deve affrontare il costo e lo stress di essere l’imputato in una causa penale. In secondo luogo, gli agenti di polizia e della gendarmeria potrebbero facilmente sostenere di essere stati psicologicamente influenzati dalla diffusione della loro immagine da parte di un giornalista, creando la possibilità che l’intento possa essere stabilito in tribunale. Nel complesso, questa mancanza di salvaguardie adeguate rischia di creare una nuova via per le cause legali”.

A conclusioni simili sono giunti gli osservatori internazionali. Il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha avvertito che la proposta “potrebbe scoraggiare, persino punire coloro che potrebbero fornire elementi di potenziali violazioni dei diritti umani da parte delle forze dell’ordine, e fornire una sorta di immunità.” L’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani presso le Nazioni Unite ha avvertito la Francia che il disegno di legge “potrebbe portare a significative violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali, in particolare il diritto alla privacy e il diritto alla libertà di espressione.”

Forti denunce si sono sollevate anche dai singoli giornalisti: è il caso di Salomé Saqué, giovane reporter di France 24 il cui thread è diventato virale su Twitter. “Il governo sta approvando una delle leggi più liberticide degli ultimi decenni,” ha scritto Saqué. “Una legge che tutti gli osservatori, le istituzioni per i diritti fondamentali e persino le Nazioni Unite qualificano come una violazione dei diritti umani e delle libertà. Impunità, sorveglianza di massa, queste parole hanno un senso. Significano che le nostre vite cambieranno, che le regole che ci inquadrano non saranno più le stesse e che sarà troppo tardi per tornare indietro.”

Un pericolo concreto per la libertà di stampa

la prima pagina di Libération di venerdì 20 novembre

I sostenitori della legge hanno respinto queste denunce, tentando di tranquillizzare la stampa. “La diffusione dei video per scopi giornalistici rimane libera e senza ostacoli, mentre il divieto copre esplicitamente le operazioni svolte con l’obiettivo di minare l’integrità dell’agente preso di mira,” hanno affermato gli autori del disegno di legge Alice Thourot e Jean-Michel Fauvergue. La clausola, spiegano, è stata aggiunta dopo che i sindacati delle forze dell’ordine hanno sostenuto che la circolazione delle riprese online degli ufficiali in servizio li ha resi facili bersagli di attacchi e ha contribuito a un aumento degli atti violenti contro le forze di polizia. Il presidente del gruppo La République En Marche presso l’Assemblea Nazionale ha giocato invece la carta sentimentale, scrivendo una “lettera d’amore ai giornalisti” in cui riesce comunque a difendere l’articolo 24. 

Il passo falso che più ha turbato la stampa francese l’ha fatto però il ministro dell’Interno Darmanin, secondo il quale i giornalisti dovrebbero informare la polizia di essere presenti alle manifestazioni in modo da “evitare confusioni” in caso la polizia “fosse costretta” a ricorrere alla violenza. Considerate le centinaia di casi in cui, soltanto negli ultimi due anni, sono state proprio le forze dell’ordine a impedire alla stampa di fare il proprio lavoro sul campo, l’affermazione è stata interpretata come l’ennesimo tentativo di restringere gli spazi di manovra dei media da parte del governo. 

Già a settembre, con la presentazione del piano nazionale di polizia, Darmanin aveva tentato di riscrivere le regole del gioco distinguendo tra i giornalisti “titolari di tessera stampa e accreditati presso le autorità” e tutti gli altri – nonostante il Codice del lavoro francese metta nero su bianco che l’esercizio della professione non richiede il possesso del famigerato tesserino. Il piano nazionale prevede infatti “un canale di scambio dedicato” tra le forze di sicurezza e “giornalisti, titolari di tessere stampa, accreditati presso le autorità”: mossa che alcuni sindacati della stampa hanno interpretato come un via libera alle forze dell’ordine per impedire ai giornalisti di svolgere il proprio lavoro durante le proteste. 

“L’arresto di diversi giornalisti durante la prima manifestazione contro la legge sulla sicurezza globale ci immerge in una nuova realtà che sarà nostra: siamo di fronte alla volontà politica di impedire alla stampa di svolgere il suo compito di coprire i movimenti sociali e la violenza della polizia, che a quanto pare deve essere invisibile,” commenta il fotogiornalista Pablo Tupin, che da anni per lavoro copre le proteste nel Paese. “In particolare la nozione di ‘attacco all’integrità psicologica del dipendente pubblico,’ che è un concetto inesistente nel diritto francese, potrebbe includere qualsiasi cosa. Va ricordato che mentre l’articolo 24 mira ufficialmente a proteggere gli agenti di polizia esposti sui social network, i testi legislativi francesi già prevedono sanzioni per i reati di incitamento all’odio o alla violenza contro persone che detengono l’autorità pubblica, sanzionata più pesantemente rispetto all’anno di reclusione previsto dall’articolo 24 di questo nuovo testo. Dunque è lecito domandarsi perché dovremmo aver bisogno di questa nuova legge,” continua.

Per il momento, i media francesi continuano a formare un blocco compatto. In una lettera che trascende – davvero – le posizioni politiche, tutte le principali testate (dal conservatore Le Figaro a Libération) rivendicano la legge del 1882 sulla libertà di stampa affermando che si rifiuteranno di fornire un accredito speciale ai loro giornalisti per coprire le manifestazioni: “Non c’è accreditamento per poter esercitare liberamente la nostra professione sulle strade pubbliche,” si legge. In un’altra, ricordano che “gli stessi video che denunciano la violenza commessa dai membri delle forze dell’ordine hanno effettivamente permesso all’argomento di apparire nel dibattito democratico – che siano stati filmati da giornalisti con o senza tessera stampa, cittadini o attivisti per i diritti umani.”

Nell’intimo, però, l’inquietudine rimane. “Siamo davanti a un’intera professione che rischia di censurarsi. È probabile che alcuni editori si rifiuteranno di trasmettere determinate immagini di violenza della polizia per timore di ripercussioni. Non parliamo nemmeno di individui,” dice Tupin. “La maggioranza dei miei colleghi ed io siamo estremamente preoccupati.”

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