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in copertina, foto di Yes on 110

Un’iniziativa legislativa popolare in Oregon ha depenalizzato piccole quantità di eroina e cocaina. È solo l’ultimo passo di una storica inversione di tendenza, in un paese che ha fatto della guerra alla droga un cavallo di battaglia

La stranezza rivendicata con orgoglio da Portland, quell’anima progressista da West Coast che si respira da Seattle a San Francisco, un grado di hipsteria alto abbastanza da ispirare un’intera serie TV. Ma anche un entroterra tanto rosso da fare invidia al vicino Idaho, un numero di senzatetto cronicamente altissimo e vaste sacche di povertà rurale. Fino a dieci anni fa, l’Oregon era “soltanto” il decimo Stato peggiore degli USA per proporzione di residenti che abusano di sostanze, compreso l’alcol. Secondo le classifiche più recenti, tra il 2016 e il 2017, il problema non ha fatto che peggiorare: oggi è al quarto posto a livello nazionale. Terzo per quanto riguarda la percentuale di persone che hanno bisogno di cure per combattere la dipendenza ma non le ricevono.

Invece di seguire la strada tracciata da quasi cinquant’anni di war on drugs, inasprendo ulteriormente le sanzioni, l’Oregon ha imboccato un’altra via. E l’ha fatto – come succede da dieci anni a questa parte negli Stati Uniti per la legalizzazione delle droghe leggere – con un raro strumento di democrazia diretta: la ballot initiative. Già nel 2014 una petizione simile aveva legalizzato l’uso della marijuana a scopo ricreativo nello Stato. Alle elezioni del 3 novembre 2020, però, lo Stato occidentale ha fatto la storia del Paese diventando il primo a depenalizzare anche piccoli quantitativi di droghe più pesanti, come cocaina, eroina e LSD. 

L’ha fatto votando per per la Measure 110, una misura di depenalizzazione da non confondere con la piena legalizzazione di qualsiasi droga. Lo scopo è quello di svuotare gradualmente le carceri affollate dello Stato limitandosi a multare le persone trovate in possesso di piccole quantità di droghe pesanti. Chi non vuole o non può pagare la multa di 100 dollari può scegliere di partecipare a dei programmi di recupero dalla dipendenza. Questi programmi saranno finanziati in parte dai proventi della marijuana legale – la cui domanda è cresciuta vertiginosamente nello Stato con la pandemia – in parte dai fondi risparmiati con lo svuotamento delle prigioni. In questo modo, si dà una risposta al contempo ai focolai di Covid-19 che hanno colpito le carceri statunitensi e ai movimenti per la giustizia sociale che da mesi (se non anni) gettano instancabilmente luce sulla discriminazione sistemica che porta un numero spropositato di afroamericani ad essere incarcerati per reati legati alla droga. 

Secondo la Oregon Criminal Justice Commission, l’iniziativa ridurrà le condanne per possesso di droga quasi del 90%, da oltre 4 mila a poco meno di 400, e ridurrà le disparità razziali negli arresti per droga del 95%. “Gli elettori, e la gente in generale, capiscono ora più che mai che questo non è il momento di arrestare qualcuno per tossicodipendenza”, ha spiegato al Guardian Peter Zuckerman, il responsabile della campagna per la Measure 110. “La tossicodipendenza è un problema di salute; merita una risposta sanitaria”.

Con un’altra ballot initiative, l’Oregon ha anche legalizzato a scopi di ricerca la psilocibina, sostanza contenuta in certi tipi di funghetti allucinogeni che si pensa possa possa ridurre l’ansia e lo stress tra i malati di cancro e le persone che soffrono di disturbo post-traumatico da stress. La Measure 109 concederà due anni al dipartimento di sanità pubblica statale per creare un programma per la produzione e la distribuzione di psilocibina agli adulti di età pari o superiore a 21 anni che cercano una terapia per vari disturbi.

Effetto domino

Foto Darrin Harris Frisby/Drug Policy Alliance, dalla preziosissima raccolta per i media di foto “realistiche” di persone che fanno uso di droghe, a cura dell’organizzazione

L’approvazione di due misure tanto all’avanguardia – anche per gli standard dell’Oregon, roccaforte democratica da quarant’anni – viene interpretata dagli attivisti come un ulteriore scardinamento dal basso della politica federale di guerra alla droga che si trascina dagli anni Settanta. “La Measure 110 è probabilmente il più grande colpo alla war on drugs fino ad oggi,” ha dichiarato Kassandra Frederique, direttrice esecutiva della Drug Policy Alliance, che ha guidato la campagna. “Come abbiamo visto con l’effetto domino della legalizzazione della marijuana, ci aspettiamo che questa vittoria ispiri altri Stati a mettere in atto delle proprie politiche di depenalizzazione della droga che diano la priorità alla salute piuttosto che le punizioni,” ha aggiunto. Dello stesso avviso è il ricercatore Zachary Siegel, che un mese prima delle elezioni scriveva che la decisione dell’Oregon “segnerebbe un cambiamento epocale a favore di un approccio all’uso di sostanze incentrato sulla salute pubblica e un allontanamento dalle politiche che incarcerano le persone o, almeno, condannano penalmente i comportamenti legati alla dipendenza.”

Finora, il massimo traguardo raggiunto era la legalizzazione dell’erba a scopi sia medici che ricreativi a Washington D.C. e in una dozzina di Stati: Alaska, California, Colorado, Illinois, Maine, Massachusetts, Michigan, Nevada, Oregon, Vermont e Washington. Il 3 novembre alla lista si sono unite Arizona, Montana, New Jersey e South Dakota. Un’altra ventina l’ha legalizzata solo a scopi medici.

Nella netta maggioranza dei casi, a passare queste leggi ci hanno dovuto pensare a livello statale i cittadini, stanchi di aspettare dei legislatori ancora titubanti in merito – nonostante ormai uno statunitense su tre viva in un luogo dove gli adulti possono liberamente consumare erba. Alcuni Stati hanno cambiato idea soltanto di recente: in Arizona una ballot initiative identica era fallita nel 2016. Il fatto che alcuni di questi siano Stati storicamente conservatori – Montana e South Dakota hanno votato per la rielezione di Trump, mentre l’Arizona è ancora in bilico – potrebbe portare qualcosa a sbloccarsi a livello federale: anche i funzionari repubblicani eletti al Congresso cominciano infatti a rappresentare una popolazione favorevole alla legalizzazione. 

Benché sia Biden sia Trump si siano opposti alla legalizzazione a livello federale, a Washington la partita potrebbe davvero aprirsi con la nuova legislatura. A maggior ragione considerato che molti bilanci statali devono cercare delle fonti fiscali alternative dopo che la pandemia ha depresso i consumi. D’altronde, il mercato della cannabis legale dovrebbe arrivare a valere 166 miliardi di dollari entro il 2025. Un’industria in crescita segnata però già da un’ingiustizia di fondo: mentre il peso della guerra alla droga grava in modo spropositato sulle loro spalle, soltanto il 4% delle aziende di cannabis statunitensi appartengono ad afroamericani.

Le radici razziste della war on drugs

Già oltre 10 anni fa, la Croce rossa internazionale affermava che “da un punto di vista umanitario, le leggi repressive che imprigionano e molestano i tossicodipendenti servono semplicemente a allontanarli dai servizi sanitari e di supporto sociale. Ciò non solo viola i principi umanitari e la legislazione sui diritti umani, ma rende quasi impossibile fornire prevenzione, trattamento, cura e sostegno contro l’HIV ed espone la popolazione generale a maggiori danni. Per ridurre il danno è necessario cambiare le politiche e riformare il sistema giudiziario.” L’istituzione chiedeva “la depenalizzazione della tossicodipendenza, nonché l’accesso a un processo legale e servizi sanitari adeguati per coloro che fanno uso di droghe sia all’interno che all’esterno dei centri di detenzione.”

Con la guerra alla droga, gli Stati Uniti hanno fatto l’esatto contrario. A partire dal 1971, quando Richard Nixon diede ufficialmente inizio a una campagna massiccia per la proibizione delle droghe, dichiarandole “il nemico pubblico numero uno” e promettendo di eradicarle attraverso “l’estirpazione, l’interdizione e l’incarcerazione.” 

Davanti a un mercato di stupefacenti illeciti in piena crescita, la risposta fu quindi quella di reprimere sul fronte interno e “dichiarare guerra” ai Paesi da cui provenivano le droghe sul fronte internazionale, piuttosto che analizzare le ragioni che spingevano verso l’alto la domanda. Una mossa che molti riconducono alla cosiddetta “Southern strategy”: sfruttare i sospetti che i bianchi del sud da sempre nutrivano verso “la criminalità nera” per ottenere i voti degli Stati meridionali, in precedenza democratici. John Ehrlichman, assistente per gli Affari interni di Nixon stesso, la spiegava invece così: “La campagna di Nixon nel 1968, e la Casa Bianca di Nixon in seguito, avevano due nemici: la sinistra contraria alla guerra e i neri. Sapevamo che non avremmo potuto rendere illegale essere contro la guerra o neri, ma facendo in modo che il pubblico associasse gli hippy alla marijuana e i neri all’eroina, e poi criminalizzando pesantemente entrambe, avremmo potuto attaccare quelle comunità.”

A far davvero assumere alla campagna la forma di una spedizione punitiva sarebbe stata però l’amministrazione di Ronald Reagan: nel 1982, il vicepresidente George H. W. Bush iniziò a spingere per il coinvolgimento della CIA e dell’esercito americano, e nel 1986 il presidente dichiarò il traffico di droga una minaccia “letale” per gli Stati Uniti. Tra il 1980 e il 1984 il budget annuale federale delle unità antidroga dell’FBI passò da 8 a 95 milioni. La schiacciante maggioranza dei fondi andò alle forze dell’ordine e alla repressione, molti meno alla prevenzione e al trattamento della dipendenza. Le pene detentive per droga aumentarono mentre venivano introdotte delle pene minime obbligatorie per certi crimini. 

Il tutto procedeva a braccetto con l’impoverimento dei ghetti a maggioranza afroamericana nelle città e la popolarizzazione negli anni Ottanta del crack, versione meno costosa della cocaina – già connessa da sessant’anni nell’immaginario comune ai neri e la loro “innata criminalità.” “Una volta che queste persone in difficoltà hanno iniziato a usare il crack, quasi tutti i tipi di autorità, dalla polizia agli assistenti sociali ai pubblici ministeri locali, hanno peggiorato le loro vite piuttosto che provare ad aiutarli,” racconta David Faber, autore di ‘Crack’: The other side of race, crime and addiction. “Il sistema politico americano ha dichiarato aperta la caccia ai giovani uomini di colore economicamente svantaggiati”: uomini che agli occhi dell’opinione pubblica erano visti già come violenti e pericolosi criminali. Una sola legge che equiparava uno spacciatore in possesso di 10 grammi di crack a uno in possesso di 1 kg di cocaina in polvere aumentò di 11 volte il numero di criminali per droga nelle carceri federali. 

L’escalation non fece che continuare con le amministrazioni Bush e Clinton. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ancora oggi – ed è raccontato perfettamente da Michelle Alexander in The New Jim Crow: Mass Incarceration in the Age of Colorblindness, in cui vengono descritte nei dettagli le conseguenze dell’incarcerazione di massa degli uomini afroamericani sulle loro comunità. Gli afroamericani non fanno uso di droghe più dei bianchi, e dato che negli Usa i bianchi restano tuttora la maggioranza della popolazione, ne consegue che la stragrande maggioranza dei consumatori di droga sono bianchi. Secondo un rapporto del 2020 dell’ACLU, però, i neri hanno una probabilità 3,64 volte maggiore di essere arrestati per possesso di cannabis rispetto ai bianchi e sono incarcerati a un tasso cinque volte superiore ai bianchi e quasi la metà sono condannati per crimini legati alla droga. In alcuni stati, i neri costituiscono il 90% degli incarcerati per droga. Un afroamericano su 16 che ha superato la maggiore età non ha diritto di voto per via della fedina penale sporca: un tasso 3,7 volte superiore a quello dei non afroamericani. Oltre il 6,2% della popolazione afroamericana adulta è priva di diritti civili, rispetto all’1,7% della popolazione non afroamericana. Una realtà che ha già cambiato il corso della storia, considerati i 200 mila afroamericani privi del diritto di voto in Florida nel 2000 — quando l’elezione tra Bush e Al Gore si decise per poche centinaia di voti. L’incarcerazione di massa lacera ancora oggi le comunità afroamericane, riducendone i redditi familiari e moltiplicando il numero delle famiglie monoparentali, che a loro volta si traducono secondo le statistiche in peggiori livelli di educazione e occupazione.

I danni sono incalcolabili anche sul piano internazionale, dove la guerra alla droga può tranquillamente essere interpretata come l’anello mancante che ha collegato la guerra fredda alla guerra al terrore, continuando a legittimare l’esistenza di basi, operazioni militari e interventi statunitensi all’estero. Tantissimi Paesi in via di sviluppo sono stati costretti a criminalizzare ed estirpare coltivazioni centrali per le tradizioni spirituali e mediche delle comunità indigene per via di un regime internazionale di controllo del traffico di droga avallato dalle Nazioni Unite. Inoltre la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, fortemente voluta dagli USA nel pieno della frenesia della war on drugs, ha, secondo gli esperti, portato a un netto aumento quasi mondiale della popolazione carceraria nonché a violazioni dei diritti umani, riduzione dell’accesso a medicinali essenziali e ostacoli all’assistenza sanitaria (compresa la prevenzione dell’HIV/AIDS). Tutto questo non è riuscito a impedire gli oltre 164 mila omicidi avvenuti in Messico soltanto tra il 2007 e il 2014, negli anni più caldi del conflitto tra Stato e cartelli della droga. Ma neanche a prevenire il boom di overdose che ha investito gli Stati Uniti nell’ultimo decennio.

“Le droghe rubano così tanto. Prendono e prendono,” diceva la first lady Nancy Reagan nel 1986, lanciando la famosa campagna “Just say no” contro le droghe. “Apri gli occhi alla vita: per vederla nei colori vividi che Dio ci ha dato come dono prezioso ai suoi figli, per goderti la vita al massimo e per farla contare. Dì di sì alla tua vita. E quando si tratta di droghe e alcol dì di no.” Stato dopo Stato, ballot initiative dopo ballot initiative, manifestazione dopo manifestazione, gli statunitensi cominciano a rigettare il messaggio inutilmente paternalista che accompagna da quarant’anni la politica federale in favore di un’alternativa che non demonizzi le sostanze — e, soprattutto, le persone che ne fanno uso. Smettendo di pensare all’abuso di stupefacenti come a un fallimento morale, piuttosto che sociale.

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