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in copertina, elaborazione da un grab da un video di Rep Tv sul panico della movida dello scorso maggio

Luoghi di lavoro, ospedali, residenze assistenziali — i posti dove ci si ammala sono gli stessi della scorsa primavera, ma il governo e la stampa parlano quasi solo di locali e di “movida.” Come se tutto questo non fosse successo già una volta

Negli ultimi giorni, con l’aumento drastico dei casi di coronavirus — non erano mai stati tanti come ieri, anche se fortunatamente per ora il sistema sanitario regge — il governo e le autorità locali hanno cercato di reagire con le prime norme anti–contagio. Si è trattata, tuttavia, di una reazione largamente scomposta, che tradisce una impreparazione francamente inspiegabile dopo sette mesi di pandemia — si parla molto del presupposto problema del contagio sui mezzi di trasporto, e in molte città si stanno attivando norme anti–assembramenti per cercare di limitare il contagio. È un meccanismo che abbiamo visto all’opera solo pochi mesi fa, tra la demonizzazione dei runner e le foto “compresse” con il teleobiettivo per creare assembramenti anche dove non c’erano.

Ieri, il direttore dell’unità di crisi lombarda, Antonio Pesenti, si è detto estremamente preoccupato, sostenendo che gli italiani sono di fronte a una scelta: “Se rischiare passando 20 minuti in autobus per andare a lavorare o 20 minuti in discoteca. Siamo tutti grandi e capaci di decidere con consapevolezza e responsabilità.” Peccato che le discoteche siano chiuse dalla fine dell’estate. 

Non si tratta, però, di una situazione solo italiana: in Francia Macron ha annunciato, in un’intervista televisiva, che gli abitanti di Parigi e di altre città particolarmente colpite dal virus, come Marsiglia, Lione, e Grenoble — in totale circa 20 milioni di persone, un terzo della popolazione francese — dovranno rimanere in casa dalle 21 alle 6 di mattina, a partire da sabato, almeno per le prossime quattro settimane. In Germania Merkel, al termine di una sessione di otto ore con i premier dei Länder, ha annunciato nuove misure anti–contagio e ha avanzato un appello ai giovani, che devono “rinunciare a qualche festa” per difendere il proprio futuro. Nei giorni scorsi sono stati chiusi i bar nei Paesi Bassi, in Repubblica Ceca, e in Irlanda del Nord.

Non siamo qui a dire che la chiusura di luoghi di convivialità non sia utile per limitare il contagio. Ma siamo certi il loro ruolo sia centrale, come la reazione convulsa dei governi europei e delle autorità locali spinge a pensare? Se le situazioni conviviali possono portare facilmente a non rispettare le importantissime norme di sicurezza, le stesse autorità che si stanno concentrando su bar e ristoranti ammettono in modo involontario che il problema sembra essere altrove. Innanzitutto, la settimana scorsa l’Istituto superiore di sanità ha fatto notare che il 77% dei contagi avveniva all’interno delle famiglie: si un dato allarmante quanto ovvio, che rivela quanto sia difficile limitare il contagio senza arrivare al lockdown. Inoltre, l’Iss ha conteggiato che il 2,5% delle trasmissioni avrebbe avuto luogo in contesti scolastici; e il 4,1% durante attività ricreative. Certamente disinnescare il contagio nelle case è un problema molto difficile da risolvere — o meglio, si risolve solo impedendo al primo caso in ogni unità familiare di diventare positivo. Per cui viene naturale chiedersi, da dove venga quel rimanente 16,4% 🤔 

Forse avviene sui mezzi? Secondo questo studio, il 29,2% degli intervistati avrebbe paura di contagiarsi su treni, tram e autobus, mentre solo il 5,3% avrebbe paura di ammalarsi in seguito a contatti con amici — lo studio, va detto, è di Confindustria, da sempre sostenitrice del trasporto privato. Forse partendo da questo sentimento comune, molti enti locali hanno alzato la voce negli scorsi giorni per chiedere misure più restrittive sull’affollamento dei mezzi. Sicuramente trovarsi su mezzi pubblici molto affollati è pericoloso, ma non in modo diverso da qualsiasi altro ambiente chiuso. Lo scorso giugno, anzi, l’Atlantic spiegava come la paura per i mezzi di trasporto pubblici “venisse prima delle prove.” 

Uno studio di Santé Publique France, su 150 focolai individuati a Parigi tra l’inizio di maggio e l’inizio di giugno ha individuato, per la precisione, zero cluster nati sui mezzi pubblici della capitale. Il mese successivo, con l’aumento progressivo dei casi in Francia, sono aumentati anche i casi di contagio anche nei mezzi pubblici, che da zero, appunto, è passato a… quattro, poco più dell’1% dei cluster individuati in quella finestra di tempo dall’agenzia. Insomma, il discorso attorno ai mezzi di trasporto dovrebbe essere completamente ri–contestualizzato: non sulla loro effettiva pericolosità, ma su come rendere il trasporto piú sicuro. (Apriamo questa breve parentesi per sottolineare che la stragrande maggioranza persone viaggia sui mezzi pubblici non per sport ma di solito per andare a lavorare)

Nel mondo reale i posti dove ci si ammala di più restano altri — e non sono certamente il bar e il tram. Ad esempio, i luoghi di lavoro. Una filiera particolarmente colpita è quella della logistica e delle spedizioni: ieri è stato identificato un nuovo focolaio presso la sede del corriere Bartolini da Guidonia. È l’ultimo di una lunga serie, l’esempio successivo più vicino è quello della Gls di Campi Bisenzio, dove sono stati conteggiati un numero capogiro di positivi — 56 su 115 dipendenti. Fin dallo scorso marzo, mentre la logistica diventava sempre più importante a causa del lockdown, il settore risultava essere tra i più colpiti dal contagio. Un mese fa, sempre in un Gls, a Cesena, erano risultati positivi 13 dei 15 addetti. Prima ancora, durante l’estate — vi ricordate, quando il virus era meno forte secondo alcuni etc etc — era arrivato sulle pagine dei giornali un vero e proprio “focolaio della logistica” a Bologna, che aveva coinvolto lavoratori di Bartolini, Geodis, e TNT. Non è un’eccellenza italiana — negli Stati Uniti Amazon ha dichiarato di aver conteggiato 19.816 casi tra i dipendenti dei propri magazzini. Il fronte della logistica è uno dei più esposti per ragioni strutturali: si tratta non solo di uno dei settori economici più in crescita — che durante la pandemia ha visto un’ulteriore forte espansione — ma che impiega lavoratori particolarmente esposti, in condizioni di lavoro che in molti casi non garantiscono la salute dei dipendenti.

Esattamente come la scorsa primavera, insomma, le fonti principali del contagio sembrano essere altre — ma, per qualche ragione, il governo preferisce non operare una stretta su questi fronti. Oltre a quello lavorativo, ce ne sono almeno altri due: quello dei contagi negli ospedali, e quello nelle residenze assistenziali. Raccogliendo solo qualche caso sparso, e sono negli ultimi giorni — si può iniziare dalla storia delle 55 suore positive del centro sociale “Padre Francesco Pianzola” di Mortara, che in totale sono 57 — in un focolaio che ha contagiato anche 12 operatori sanitari; in Emilia–Romagna sono numerosi i casi individuati all’interno di strutture, 45 solo l’altroieri; all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia, sono stati individuati 10 operatori del laboratorio d’analisi; ad Avezzano è stato individuato un focolaio nel Rsa dell’istituto religioso Don Orione.

Di fronte al numero sempre più alto di casi, nei prossimi giorni si parlerà con sempre più insistenza di nuove restrizioni. La letteratura scientifica pubblicata nel corso di questi mesi di pandemia dimostra che certamente i locali e l’attività sociale sono fattori di forte contagio — qui uno studio sui bar e sulla scena musicale di Hong Kong; un altro sulla divisione dei cluster in Giappone, dove bar ed eventi musicali costituiscono un numero non esiguo dei cluster; negli Stati Uniti la riapertura dei bar è stato un fattore importante nell’espansione del contagio — ma queste misure hanno senso soltanto nel contesto di una più ampia lotta al contagio, che non si concentri nel trovare risposte facili e moralizzatrici, “il Covid circola perché volete divertirvi, ma nel cercare politiche efficaci. Ieri Macron ha parlato di intensificare il lavoro da remoto — qualcosa che le aziende francesi per qualche ragione odiano — e il ministro della Salute Speranza ha pubblicato una clip in cui chiede di differenziare gli orari e di ampliare lo smart working. Non basta dirlo solo nei talk show, però: per contrastare il contagio si deve garantire che chi possa lavorare da casa lo faccia, bisogna garantire la sicurezza di chi deve lavorare in presenza — e chiudere le filiere dove non si può garantire la salute dei dipendenti. È necessario proteggere le persone esposte nelle residenze assistenziali, per evitare le stragi di questa primavera, e bisogna garantire la sicurezza degli operatori sanitari. Invece, si sta perdendo, di nuovo, tempo prezioso. Come se tutto questo non fosse successo già una volta.

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Stefano Colombo ha contribuito a questo articolo.
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