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Durante i mesi centrali dell’epidemia di Covid-19, molti lavoratori sono rimasti privi di un’entrata economica. Abbiamo raccolto la testimonianza di Alessandro, che da istruttore di parkour ha trovato un nuovo impiego come operaio in una fabbrica riconvertita alla produzione di mascherine

Quando, lo scorso 22 febbraio, si è diffusa la notizia dei primi due casi di contagio da coronavirus in provincia di Milano, la palestra Space One (nome di fantasia, ndr) era aperta e affollata come ogni fine settimana. Il giorno successivo la regione Lombardia annunciava con un’ordinanza la chiusura di tutti i luoghi di aggregazione, palestre comprese, fino a data da destinarsi.

Alessandro M., 30 anni, istruttore di acrobatica alla Space One, è stato tra i primi lavoratori a restare a casa per la chiusura delle attività economiche. I lavoratori dello sport — 116 mila in Italia, di cui il 17% sotto i trent’anni, secondo i dati Eurostat — sono stati anche tra gli ultimi a poter ritornare al proprio mestiere: nella maggior parte delle regioni le palestre hanno riaperto il 25 maggio, in Lombardia soltanto il 1° giugno.

Alessandro ha iniziato a lavorare allo Space One poco tempo dopo l’apertura, nel 2013. Inizialmente doveva sostituire un amico che dava già lezioni lì, e poi è rimasto. Durante l’anno, normalmente, è impegnato a tenere lezioni di gruppo o individuali, sia ad adulti che a bambini, di ginnastica acrobatica.

Al momento dello scoppio dell’emergenza stava lavorando con un contratto di collaborazione sportiva a tempo determinato, come molti colleghi: circa il 90% dei lavoratori dello sport ha un contratto di questo tipo, che non prevede forme di tutela. Con la riapertura della palestra, dovrà probabilmente aprire una partita Iva, come molti suoi coetanei, che da anni compongono la fascia di età che maggiormente contribuisce alle nuove aperture di partite Iva.

Alessandro però lavora da autonomo per scelta, dopo essersi licenziato da un contratto da dipendente a tempo indeterminato nello stesso ruolo e che gli richiedeva orari da ufficio. Come collaboratore sportivo, anche lui ha avuto diritto ai 600 euro del bonus previsto dal decreto Cura Italia. A metà maggio, non li aveva ancora ricevuti.

Dal momento in cui la Space One ha chiuso, a fine febbraio, Alessandro si è ritrovato nel limbo comune a molti lavoratori autonomi durante la fase di lockdown: non disoccupato, ma privo di un’entrata economica e di un’occupazione con cui impegnare tempo ed energie. All’inizio ha colto l’occasione per fare sport per conto proprio, con la speranza di tornare al lavoro poco dopo.

Man mano che il tempo passava però ha avvertito sempre più l’esigenza di fare qualcosa che lo tenesse occupato: “Sono stato a casa un mese senza fare niente,” spiega, “ed era uno stress psicologico non da poco, anche perché non c’era prospettiva per il futuro. Nel senso che c’era solo una speranza… l’attesa di un qualcosa che dall’esterno mi informasse che le cose cambiano.” Per reagire a questa condizione, Alessandro ha provato a cercare delle alternative di lavoro compatibili con le circostanze emergenziali: “Passato un mese [dalla chiusura della palestra] ero fiducioso che dopo un altro mese avremmo riaperto. Quindi sul momento l’ho fatto più per una necessità psicologica, che economica,” racconta. Col senno di poi, anche l’aspetto economico ha assunto rilevanza: la sua attività di istruttore è rimasta sospesa per tre mesi, anziché due, e i 600 euro hanno tardato ad arrivare.

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Un mese dopo la chiusura della Space One, ad Alessandro è capitato quello che lui stesso definisce “un bel colpo di fortuna.” Il coinquilino con cui divide l’affitto di un appartamento in zona Ortica —  anche lui collaboratore dello Space One — già prima dell’emergenza lavorava part-time per un’azienda produttrice di cosmetici. L’azienda è tra quelle che, trascorsa una fase iniziale di difficoltà, hanno deciso di riconvertire la propria attività nella produzione di mascherine, rispondendo all’elevata richiesta e potendo usufruire degli incentivi per la produzione di dispositivi di protezione individuale, previsti dal decreto Cura Italia, per i quali a fine aprile avevano fatto domanda 635 imprese, a 102 delle quali sono stati concessi – la maggior parte in Lombardia.

L’azienda ha potuto riadattare alcuni dei macchinari usati in precedenza per sagomare maschere per la cosmesi e acquistarne di nuovi; una volta avviata la nuova attività di produzione, ha iniziato ad assumere personale. Alessandro ha colto l’opportunità offertagli dal coinquilino e, a fine marzo, ha iniziato a lavorare come operaio nella fabbrica riconvertita.

La fabbrica si presenta come “un bell’ambiente,” sia dal punto di vista delle persone che ci lavorano che degli spazi, secondo Alessandro. Il fatto che si tratti di una piccola realtà e che sia stato ben introdotto dal suo coinquilino gli ha permesso di instaurare fin da subito un buon rapporto di collaborazione.

Le attività di produzione vengono svolte seguendo rigide procedure di sicurezza e di sanificazione, per le quali l’azienda era in parte già attrezzata, perché il settore della cosmesi richiede procedure simili. Gli operai entrano nel laboratorio dove vengono confezionate le mascherine con una protezione che li isola quasi completamente dal contatto con l’ambiente esterno: “C’è un angolo del cambio dove ti togli i tuoi vestiti, metti il camice, la copertura per scarpe, la cuffietta, la mascherina, i guanti – come un chirurgo,” spiega Alessandro. “All’interno di questo laboratorio entri protetto con questo camice lungo, completamente protetto. Una volta che esci dal laboratorio, per esempio in pausa pranzo, togli camice, guanti e il resto. Poi una volta che rientri nel laboratorio, ti rimetti tutto.”

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I turni di lavoro variano di settimana in settimana e vengono organizzati cercando di andare incontro alle esigenze di ciascuno. L’orario di lavoro va, normalmente, dalle 9:00 alle 18:00, ma nel primo periodo,  quando la richiesta di mascherine è stata massima, la fabbrica ha lavorato con un doppio turno, il primo dalle 7:00 alle 14:00 e il secondo dalle 14:00 alle 21:00, per permettere di sfruttare l’intero arco della giornata. La richiesta di mascherine è stata elevata soprattutto nelle prime settimane, poi, con il blocco del prezzo, i numeri degli ordini si sono ridotti e i ritmi sono rallentati.

“Diciamo che non c’è tanto lo sforzo fisico, ma poi magari ti fa male la schiena o una parte del corpo perché è utilizzata per 8 ore sempre nello stesso movimento”

La produzione di mascherine non è la prima esperienza di manovalanza di Alessandro, ma è la prima come operaio in fabbrica. A differenza di altri lavori svolti in precedenza, questo è il primo impiego a richiedere l’impegno ripetitivo di un gesto. “Diciamo che non c’è tanto lo sforzo fisico, ma poi magari ti fa male la schiena o una parte del corpo perché è utilizzata per 8 ore sempre nello stesso movimento,” spiega. Per mantenere il corpo in linea con l’utilizzo che ne fa nel suo impiego da istruttore, Alessandro ha dovuto mantenere l’allenamento fuori dall’orario di lavoro. Anche il tipo di impegno mentale richiesto è diverso da quello cui è normalmente abituato un istruttore sportivo.

L’adattamento al ritmo della fabbrica è quindi stato faticoso per Alessandro, soprattutto rispetto alla percezione della finalità del suo nuovo impiego: “All’inizio mi sembrava un modo per passare il tempo con i miei pensieri. Dopo un po’ però ti rendi conto che sei come un macchinario, sei una crescita di valore di quel materiale che sta nelle tue mani. Ti senti utile, ma per alzare il valore di un prodotto. La tua persona, il tuo essere in grado di presentarti come singolarità nel mondo, non viene richiesto. Sono passato dall’alzare il valore di una persona all’alzare il valore di un prodotto.” Fuori dal lavoro, in compenso, Alessandro sente di avere più energie di prima: “Ho molte più energie mentali, mi viene da parlare… perché non ho passato 8 ore a parlare a delle persone per convincerle che non muoiono se fanno una capriola. Ci sono i pro e i contro… Quando lavoravo 8 ore come istruttore non avevo neanche voglia di ricevere una chiamata!”

Nell’ultimo periodo, la richiesta di mascherine è tornata a crescere. L’azienda, nel frattempo, ha acquistato un macchinario con taglio laser, che a parità di tempo e con un minor numero di operai permette di produrre un maggior numero di mascherine. Il doppio turno non è più necessario. Alessandro, che dall’inizio dell’impiego in fabbrica a oggi ha continuato a dividersi il turno lavorativo normalmente assegnato a una persona con un amico, rimasto anche lui senza un’entrata economica, in alcuni casi è arrivato a lavorare solamente due giorni a settimana. Il nuovo macchinario, spiega Alessandro, funziona da solo, mentre prima c’era bisogno che qualcuno lo azionasse.

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Il suo ruolo adesso è quello di contare e impacchettare le mascherine: “Il macchinario taglia le mascherine. Le mascherine cadono messe male sul nastro trasportatore, una persona le mette tutte nello stesso verso, di modo che poi io, dentro il laboratorio, le conto – perché la mia mansione adesso è quella di contarle, infilarle nel pacchettino, sigillare il pacchettino, etichettare la confezione e infilarle nello scatolone per la spedizione.” Se prima l’azienda produceva dalle 1.000 alle 1.500 mascherine al giorno, adesso ne produce dalle 4.000 alle 6.000, a seconda che il turno sia regolare o doppio.

Come cambierà adesso la situazione nella fabbrica, con la fase 2? Le cose torneranno come prima dell’epidemia? Di recente Alessandro ha sentito uno dei responsabili dell’azienda commentare una mail di richiesta di ordine di un macchinario per la cosmesi che l’azienda produceva prima della pandemia. Ha sorriso e ha detto: Finalmente, magari si ritorna a vendere quello per cui siamo nati.”

Dal 1° giugno le palestre hanno riaperto anche in Lombardia. Alessandro è chiamato in gioco come istruttore per immaginare come riorganizzare le lezioni acrobatiche, tenendo conto delle restrizioni prescritte dalle nuove regole di distanziamento sociale. Non si tratta di un adeguamento semplice, nel caso delle discipline acrobatiche. “È un po’ insostenibile per noi,” spiega Alessandro, “perché l’attrezzo che utilizziamo è il nostro corpo. Quindi l’assistenza [da parte dell’istruttore] viene fatta proprio sul corpo.” La Space One convertirà le lezioni perse nei 3 mesi di chiusura in lezioni private (le uniche permesse dai decreti) o in abbonamenti per il prossimo anno. “L’idea che sta girando è che da settembre la palestra probabilmente sarà a metà regime: metà gruppi, con la metà delle persone all’interno dei gruppi.” La fase di lockdown ha messo in crisi diverse palestre e centri sportivi e allo Space One lo spazio dedicato alle attività ricreativa, su cui si basavano la maggior parte delle entrate della palestra, non riaprirà fintanto che non terminerà la fase di distanziamento.

Alessandro spera di tornare alla normalità del proprio impiego come istruttore: “Crescere il valore di un prodotto anziché il valore di una persona, o dei rapporti… Diciamo che per me è deprimente. Riesco a staccarmi da questa sensazione solo perché ho iniziato questo lavoro non per necessità economica… E perché ho ancora la speranza di tornare al mio lavoro.” Fuori dall’orario lavorativo, le abitudini di Alessandro non sono cambiate molto in questi mesi: l’unica differenza è che prima andava al lavoro con i pattini, mentre ora deve fare 20-30 minuti di macchina per uscire da Milano, ma non gli pesa. Soprattutto, resta in attesa di quello che verrà: “Questo lavoro non è così regolare da crearmi abitudini diverse… Sto vivendo un po’ in questo limbo di speranza di tornare a lavorare nel mio settore. È come se non avessi preso una regolarità.”