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Il ministro Boccia e il sindaco di Bari Decaro hanno annunciato un bando rivolto a disoccupati e percettori di reddito di cittadinanza, che dovrebbero lavorare gratuitamente per salvare il paese dalla movida

Il dibattito sulla fase 2 in Italia, in parte grazie anche a numeri del contagio effettivamente in flessione, si è arenato sulla questione della “movida.” Le uscite dei giovani, coperte in modo febbrile dalla stampa, sono diventate un capro espiatorio perfetto, che permette di sorvolare su discussioni più importanti. Ad esempio sul rispetto delle misure di sicurezza sul lavoro o negli ambienti sanitari, e sulla complessiva strategia di “test, tracciamento e trattamento” che dovrebbe essere la chiave per “convivere” con il virus, ma su cui finora il governo e le regioni si sono dimostrati molto carenti.

Ieri il dramma nazionale delle persone che bevono una birra alla sera ha raggiunto un nuovo livello. Il ministro Boccia e il sindaco di Bari, Antonio Decaro (Pd) hanno trovato una “soluzione” creativa: reclutare 60 mila “assistenti civici, ovviamente volontari, da mettere a disposizione dei sindaci per collaborare, “con il loro sorriso e la loro educazione” (Boccia ha detto veramente così), al rispetto del distanziamento sociale.

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Ma chi dovrebbe rispondere a un bando del genere? Secondo Boccia, si rivolgerà soprattutto “a inoccupati, a chi non ha vincoli lavorativi, anche percettori di reddito di cittadinanza o usufruisce di ammortizzatori sociali” — e anche ai pensionati, nonostante costituiscano una delle fasce più a rischio, e che quindi non dovrebbero assolutamente svolgere un ruolo come questo.

Non è nemmeno chiaro, precisamente, cosa dovrebbero fare questi “assistenti civici,” dato che le loro funzioni non potranno essere assimilabili a quelle di agenti di polizia o “ausiliari del traffico”: non potranno infatti comminare multe a chi infrange i divieti di assembramento, e quindi difficilmente potranno risolvere il problema al di fuori degli annunci televisivi. Sempre che qualcuno sia disposto a lavorare gratuitamente per 16 ore alla settimana — questo è il tetto massimo annunciato da Boccia — rischiando non solo di essere contagiato, ma magari pure qualche aggressione. Nella mattinata di oggi l’idea ha ricevuto anche il plauso del viceministro della salute Pierpaolo Sileri, secondo cui di volontari ce ne vorrebbero “anche più di sessantamila.

A tre settimane dall’inizio della “fase 2,” in Italia è stato fatto poco e nulla per portare avanti strategie serie di contact tracing. La piattaforma di notifiche di esposizione al virus di Google e Apple è pronta, e oggi è stato caricato su Github il sorgente dell’app Immuni: sui tempi tecnici per la pubblicazione dell’app, però, non si sa ancora niente. E in ogni caso non è l’unica soluzione: la piattaforma non si occupa infatti di fare contact tracing di per sé, ma solo di notificare alle persone che sono state esposte al virus. I paesi che hanno svolto, con esiti alterni ma sicuramente più ambiziosi dei nostri, il tracciamento delle infezioni, lo hanno fatto grazie a vere task force di investigatori sanitari e strumenti di investigazione altamente tecnologici. In Corea del Sud, dove nelle scorse settimane si è effettivamente registrato un focolaio legato alle discoteche del quartiere di Seoul di Itaewon non solo il governo ha saputo agire con tempismo, riconoscendo in maniera chirurgica la fonte del contagio ed operando solo sul quartiere interessato, ma ha verificato direttamente tutte le persone con cui chi era uscito la sera del contagio è entrato in contatto: solo per il focolaio di quelle discoteche sono state individuate e testate 35 mila persone.

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Tuttavia, il caso sudcoreano non dà sostanza alla demonizzazione della “movida”: su 35 mila persone sono stati individuati 133 nuovi casi, di cui 82 di contagio diretto e 51 di trasmissione ulteriore da chi era stato infettato a Itaewon. La vera differenza non è quindi il numero di casi, ma il tipo di risposta. Per raggiungere tutte le persone in tempo rapido il governo sudcoreano ha messo a disposizione delle autorità sanitarie 8600 agenti di polizia. Una risposta del genere in Italia in questo momento non è immaginabile non tanto perché mancano gli strumenti tecnologici, o perché si rispetta di più la privacy delle persone: è semplicemente aliena l’idea di svolgere vere indagini sanitarie. Si preferisce nascondersi dietro l’ennesimo specchietto per le allodole, sperando di poter attingere, per l’ennesima volta, dalla riserva dei disoccupati o di chi riceve il reddito di cittadinanza — considerati evidentemente dallo stato come una fonte eterna di braccia da poter comandare a bacchetta, un giorno da mandare nei campi a raccogliere pomodori, un altro a fare gli sbirri sul Naviglio grande.

Ammettiamo pure che l’esempio della Corea del Sud sia troppo lontano semplicemente dal nostro campo di competenza per essere imitato. Si può andare molto più vicino e prendere il caso della Germania, ancora più interessante perché comprende un utilizzo di forza lavoro volontaria. Solo che, anziché per gettare benzina sul fuoco di una guerra tra poveri, sono stati reclutati per aiutare nel tracciamento dei contagi. Per quanto possa essere discutibile l’utilizzo di forza lavoro volontaria è un modo del tutto diverso, e costruttivo, di affrontare il problema. Per quanto ne dica il sindaco Decaro, i sessantamila volontari sembrano più inseriti nella grande tradizione italiana di ronde e “squadre per riportare l’ordine,” in alcuni casi con l’ausilio di olio di ricino, che in una strategia di contenimento del Coronavirus.

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Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.