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in copertina le rivolte a San Vittore, grab via YouTube

A due mesi dalle rivolte nei penitenziari di tutta Italia, le misure alternative alla detenzione sono ancora poco applicate, anche a causa della mancanza di alloggi per gli ex detenuti che non hanno una casa dove andare

Una protagonista della serie tv ambientata nel carcere femminile di Litchfield sta per tornare a casa: è felicissima di iniziare una nuova vita ma ha molta paura perché non sa cosa troverà oltre il carcere. Fuori non c’è una famiglia che la attende, non ha soldi né un posto dove stare. Dopo aver provato ad arrangiarsi, finisce di nuovo dentro. Litchfield è un luogo inventato dalla regista Jenji Kohan per la serie Orange is the new black, ma non è così lontano dalla realtà.

Recentemente, in piena emergenza coronavirus, la Regione Lombardia ha bloccato il finanziamento di un progetto di housing per i detenuti delle carceri di Milano. Gli amministratori penitenziari insieme al terzo settore e al Comune di Milano stanno cercando un modo per alleggerire la pressione sulle carceri sovraffollate, dopo le proteste che hanno scosso le carceri di tutta Italia a inizio marzo. Il progetto di housing, ostacolato dalla Regione, è una delle possibili soluzioni. Il Comune ha già individuato 20 alloggi disponibili se dovessero arrivare i finanziamenti. Vista la posizione della Regione, Cassa Ammende ha deciso di affidare i finanziamenti direttamente al Provveditorato regionale. Il progetto di housing si farà anche se il Pirellone, rifiutandosi di deliberare, ha allungato i tempi di una situazione al collasso.

“Il progetto di housing ha una lunga storia, insieme all’inserimento lavorativo e al trattamento della salute mentale delle persone detenute,” spiega Corrado Mandreoli dell’Osservatorio carceri della Cgil. I fondi per finanziarlo sono previsti da Cassa Ammende, l’ente economico del ministero della Giustizia che finanzia progetti per il reinserimento sociale dei detenuti, per attuare le misure alternative alla detenzione nelle carceri. “La Lombardia dice NO!”, ha dichiarato Stefano Bolognini, assessore regionale alle Politiche Sociali, Abitative e Disabilità. Un indirizzo in contrasto con la legge regionale 25/2017 sulla tutela dei detenuti e la riduzione della recidiva, approvata dalla stessa giunta presieduta da Attilio Fontana.

Non si tratta infatti di “regalare case popolari ai detenuti,” come sostiene l’assessore leghista: “Con l’emergenza coronavirus diventano molto importanti le politiche abitative che permetterebbero di far uscire chi ha i criteri per farlo, alleggerendo il peso sugli istituti penitenziari. Stiamo parlando di persone che potrebbero uscire ma non possono perché non hanno i soldi per vivere. Non c’entra assolutamente niente con le famiglie in cerca di casa,” spiega Mandreoli. L’Emilia Romagna ha già messo a bando i fondi di Cassa Ammende per finanziare 90 posti per accogliere i detenuti che possono proseguire la pena fuori dal carcere, con precedenza alle donne con figli. Altre regioni, come il Lazio, hanno attuato altre soluzioni.

“Le misure alternative che si stanno utilizzando sono la detenzione domiciliare per le persone che hanno patologie a rischio indicate dall’Istituto Superiore della Sanità, l’affidamento ai servizi sociali provvisorio e la detenzione domiciliare per pene fino a due anni,” spiega Antonella Calcaterra, avvocata della Camera Penale di Milano ed esperta di diritto penitenziario. La detenzione domiciliare è prevista dall’articolo 123 del decreto “Cura Italia,” che sospende le licenze previste per i detenuti in semilibertà ma permette di eseguire la detenzione nella propria residenza fino al 30 giugno per le condanne fino ai 18 mesi. Questo articolo esclude che possano di beneficiare del 123 detenuti condannati per associazione mafiosa e criminale, compreso il 41 bis.  Sulla scarcerazione dei detenuti che sono stati condannati in via definitiva decidono i tribunali di sorveglianza, competenti per territorio. Su chi è in attesa di giudizio, decide il gip competente. I tribunali non decidono in modo uniforme, spiega l’avvocata: “Vigono pensieri diversi. Per alcuni magistrati il carcere è più sicuro di altri posti in questo momento.” Diventa così cruciale la partita sulle politiche abitative: “Molti potrebbero uscire dal circuito penale ma non possono perché non hanno una casa. In questo momento anche il terzo settore è in difficoltà perché tutti i posti sono pieni.” Ma il problema non riguarda solo gli alloggi. Come scrive l’avvocata Calcaterra, la fornitura di 4700 braccialetti elettronici indispensabili per l’accesso alla detenzione domiciliare avverrà solo entro fine maggio.

Il tema delle scarcerazioni è tornato sulle prime pagine di tutti i giornali con la polemica della “lista dei 376 boss mafiosi” scarcerati negli ultimi due mesi. È ancora poco chiaro quale sia il grado di pericolosità sociale di molti dei soggetti in questione, ma le decisioni sono state prese in modo indipendente dai tribunali di sorveglianza in attuazione delle norme previste dal decreto Cura Italia, come ha affermato il ministro della Giustizia Bonafede. Il Garante per le persone detenute della Regione Lazio, con un editorale su Il Riformista, fa sapere che i boss scarcerati dal 41 bis sono 3 e non 376. “Comunque, certo è che — afferma il Garante — nonostante i profili criminali tratteggiati nell’articolo citato, nessuno di questi 373 detenuti scarcerati dal circuito di alta sicurezza è stato considerato da Ministro e Procura nazionale antimafia così pericoloso per l’ordine e la sicurezza pubblica da stare in 41bis”. Il governo ha approvato comunque un nuovo decreto che risponde alle critiche di lassismo contro la lotta alla mafia: ogni 15 giorni i magistrati di sorveglianza dovranno verificare le condizioni che hanno consentito la concessione degli arresti domiciliari ai detenuti condannati o accusati di reati connessi all’associazione mafiosa che ne hanno fatto richiesta.

Com’è la situazione a due mesi dalle rivolte

foto di Associazione Antigone, via Facebook

L’emergenza sanitaria ha portato al pettine tutti i nodi del sistema carcerario, e in particolare il sovraffollamento degli istituti. Secondo l’associazione Antigone, i detenuti presenti, alla fine di febbraio, erano 61.230, circa 11 mila in eccesso, con un tasso di affollamento del 190% in alcune carceri. Secondo il Garante nazionale per i diritti delle persone detenute, nelle carceri italiane, dopo due mesi, le presenze sono diminuite a circa 53 mila detenuti. Attualmente in tutta Italia sono 159 casi positivi al coronavirus tra i detenuti e 215 tra il personale (dato aggiornato al 29 aprile).

A Milano, poco prima delle rivolte del 9 marzo, il carcere di San Vittore registrava 945 presenze su 749 posti regolamentari. Nel corso della sottocommissione consiliare sulla situazione delle carceri milanesi, il direttore di San Vittore ha riferito che “ci sono stati circa 300 ingressi a marzo e aprile. 100 detenuti sono stati trasferiti e 150 scarcerati. Una sezione è stata chiusa per un mese e riaperta il 21 aprile. Stiamo cercando di portare a 2 le camere da 3, a 4 quelle da 8, a 5 quelle da 11.” Sono invece 60 i detenuti che hanno cominciato a scontare ai domiciliari le loro pene residue – inferiori ai 18 mesi – dopo essere usciti dal carcere di Opera, che a fine febbraio 2020 ospitava, però, 1.347 persone per 915 posti letto regolamentari. A Bollate, il secondo carcere più grande della città, dal 10 marzo al 24 aprile sono stati scarcerati in 122, “soprattutto affidamenti provvisori ai servizi sociali e differimenti della pena. Ci sono pochissime scarcerazioni domiciliari anche per la difficoltà di trovare alloggi. La questione del domicilio è prevalente. Solo qualcuno dei detenuti è stato accolto nelle case accoglienza della Caritas,” ha detto la direttrice Buccoliero.

Il 9 marzo è una data importante per capire i limiti delle carceri italiane. La prima “rivolta” è avvenuta nel carcere di Salerno il 7 marzo, dove 200 detenuti sono saliti sui tetti a protestare. Contro cosa? Probabilmente era trapelata la notizia della sospensione dei colloqui settimanali delle famiglie dei detenuti, che ne hanno diritto a seconda dei casi da 4 a 6 volte al mese. Notizia confermata dal decreto “Cura Italia” annunciato il giorno successivo. Da quel momento scoppiano le proteste in tutte le carceri italiane, da Trento a Palermo. Il bilancio parla da sé: 14 morti tra i detenuti a Modena, Rieti e Bologna, 76 evasi (ad oggi tutti all’interno del carcere) decine di agenti feriti e interi reparti devastati. Dopo le rivolte del 9 marzo, a San Vittore l’ala cosiddetta della “nave,” che ospita il reparto di trattamento delle tossicodipendenze, è tornata operativa solo da fine aprile. Tutte le carceri hanno subito danni, materiali e tra il personale, e hanno dovuto attuare politiche di trasferimento complicate dal rischio contagio. C’è chi ipotizza una concertazione delle rivolte ma l’ipotesi più probabile resta la reazione spontanea al rischio di contagio e la sospensione dei colloqui. “In risposta all’emergenza sanitaria uno dei primi interventi è stato di bloccare le visite e questa cosa ha innescato un processo forte perché le visite sono l’unica modalità di contatto che i detenuti hanno con la loro sfera affettiva. Da sempre questa sfera è fondamentale per la rielaborazione della pena. In Italia le telefonate sono possibili in sostituzione delle visite solo una volta alla settimana e sono sempre legate a una laboriosa procedura di richiesta,” spiega Mandreoli.

Le disposizioni del Dipartimento di amministrazione penitenziaria escludono l’utilizzo di Skype in modo sistematico. Dopo le rivolte, molti istituti si sono attrezzati per avviare colloqui con le famiglie su Skype ma la carenza delle infrastrutture non permette la continuità dei servizi e l’uniformità di trattamento. Lo stesso problema vale per gli operatori sociali che lavorano all’interno delle carceri, cui è affidato il compito di redigere la relazione, la cosiddetta sintesi, che permette l’accesso alle misure di alternative di detenzione. A San Vittore ci sono 638 agenti di polizia penitenziaria di polizia e 13 educatori effettivi. Durante l’emergenza coronavirus nessuno di loro ha potuto accedere al carcere, alcuni colloqui sono proseguiti su Skype. “Il carcere deve essere rieducativo. Un detenuto in carcere costa di più di una presenza in comunità,” afferma Mandreoli.

La sentenza Torreggiani del 2013, ha sanzionato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, cioè per il sistematico trattamento inumano e degradante di sette detenuti nelle carceri di Piacenza e Busto Arsizio. Questa sentenza è diventata una “sentenza pilota” proprio perché le pessime condizioni di detenzione dei sette ricorrenti sono sistematiche e comuni a tutti i detenuti d’Italia, cioè derivano dal modo in cui il sistema penitenziario è stato pensato e organizzatoa. Nell’ottobre 2018 si è concluso l’iter di riforma del sistema penitenziario che ha applicato la sentenza Cedu, ma non ha preso in considerazione molti aspetti critici del sistema. I nodi della salute, del sovraffollamente e dell’esclusione sociale sono ancora irrisolti.