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Il 17 aprile è uscito per IRMA Records Labirinti, il primo EP di Milano Shanghai, un gruppo — e un collettivo — che orbita attorno a via Paolo Sarpi, a Milano, e indossa le mascherine da prima che diventassero indispensabili
È complicato pubblicare musica in questo periodo. Non la si riesce a promuovere come si vorrebbe e non la si può nemmeno portare dal vivo. Pubblicare ora un nuovo album può vanificare gli sforzi fatti per mesi, significa anche rinunciare a una parte sostanziale di guadagni per l’impossibilità di fare i concerti. E quando torneremo alla normalità non è detto che avremo voglia di andare a un live bardati con guanti e mascherine. In ogni caso, almeno per un certo periodo, è probabile che conserveremo una certa diffidenza, ci terremo a distanza. “Tutta questa cosa del virus è nata in Cina, a gennaio, e noi eravamo già con le mascherine,” racconta Pietro. “Quindi puoi pensare la paranoia iniziale di tutto questo percorso. Però poi ci siamo detti che in fondo la musica poteva rispecchiare anche questi tempi e quindi abbiamo pensato, facciamolo uscire e vediamo come va, perché alla fine per far continuare la musica bisogna far uscire i dischi.” Ma Labirinti era già pronto da un anno, “da maggio-giugno dell’anno scorso. L’abbiamo chiuso un bel po’ di tempo fa e poi anche per promuoverlo e per questioni di etichetta ci abbiamo messo un po’ a capire.”
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Le mascherine che indossano Pietro, Giovanni e Stefano invece non sono una trovata degli ultimi mesi ed è sbagliato cercare richiami solo alla situazione sanitaria. “Praticamente mio padre è un web designer che fa anche robe artistiche,” spiega Pietro. “Avevamo questa roba qua [mostra su Zoom una specie di testa]. Utilizzavamo per la nostra estetica una sorta di manichino con questa maschera sopra, che compare anche nel video di Salvagente. Allora abbiamo pensato di costruirci attorno un’estetica.” Ma le mascherine venivano associate alla cultura cinese al di là del virus. “Se fai un giro in Paolo Sarpi, un botto di giovani li vedi con le mascherine nere con delle grafiche disegnate sopra. Quindi volevamo richiamare quell’estetica. Inizialmente era un’idea legata solo a quello, poi si è trasformata in qualcos’altro e l’abbiamo colta.”
Il collegamento con la Cina e più in generale con la cultura orientale esiste più da un punto di vista estetico che di riferimenti musicali, letterari o cinematografici, “parte da un ragionamento di stile di vita collegato con la Cina. Al di là di via Paolo Sarpi dentro Milano c’è tanto mondo orientale. Anche in via Padova, dove abita uno di noi, oppure a Lissone, dove abita un altro di noi, trovi sempre il bar cinese e il negozio cinese,” spiega Pietro. “C’è una vicinanza col mondo orientale, che ormai fa parte della nostra vita. Quando vai a berti una birra, ad esempio, vai in un bar cinese perché costa di meno. È questo il collegamento. Poi io abito dentro Chinatown, però il punto è il modo di vivere la Cina a Milano. Era quello l’aspetto che ci interessava mettere a fuoco. Il video di Salvagente parla anche di questo.”
Il nome del gruppo invece è arrivato dopo aver scritto le prime canzoni, “ancora prima che ci chiamassimo Milano-Shanghai abbiamo scritto un pezzo in cui la citavamo. Poi ci sembrava bello che il nome della crew si collegasse ai pezzi del disco,” racconta Pietro.
Labirinti non parla di Milano con i riferimenti precisi e un po’ tutti uguali con i quali siamo ormai abituati ad orientarci all’interno della scena indie. “I testi e le cose che diciamo nell’EP raccontano più un sentimento, un mood che viviamo all’interno della città. A noi piace molto l’atmosfera della Milano notturna, che molto spesso è al di fuori degli aperitivi e delle serate: il quartiere silenzioso, le luci, i profumi. Volevamo mettere tutto questo insieme di sensazioni che puoi provare durante la notte a Milano in una serie racconti un po’ sfocati. Nei nostri testi non troverai mai un riferimento preciso. Mettono a fuoco più un modo di essere e di vivere la città fuori dall’estetica che si può incontrare dappertutto.” Come Chinatown, che prima della quarantena era un quartiere dai due volti, tirato a lucido di giorno quando veniva frequentato per lo più da turisti e hipster, brulicante di vita e più autentico la notte, quando le vie lasciavano spazio agli artigiani e agli abitanti del quartiere. “Chinatown molti anni fa era un quartiere che non godeva della popolarità che ha adesso,” continua Pietro. “Negli ultimi anni via Paolo Sarpi è diventata una mensa comune per gli hipster. Di giorno si è persa molto l’identità che aveva una volta, mentre di notte puoi notare delle cose che non noti di solito, dei movimenti che di giorno non vedi, come la gente che continua a lavorare dopo le undici. C’è un movimento che alla luce del sole è coperto da una patina. Ma di notte questa scompare e vedi la realtà del quartiere.”
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L’influenza delle culture straniere a Milano non va ristretta solo a Chinatown. È fatta di odori e suoni che si sentono camminando per le vie di molti altri quartieri. “In via Paolo Sarpi c’è un musicista che suona uno strumento etnico cinese che non so neanche come si chiami che tutte le sere è lì a suonare e se si passa lo si può sentire che suona da solo,” spiega Giovanni. “Ma se prendo il testo di Salvagente e lo trasporto in una zona come la mia, quella di via Padova, riesco comunque a ritrovarmici molto. Nel mio quartiere riconosco a che altezza della via sono in base anche all’odore che sento, a seconda delle lingue che le persone intorno a me parlano, e quello che mi circonda è comunque un misto di culture diverse da quella italiana, che si fondono per creare un altro contesto.” Multiculturale, aperto. L’opposto di quello evocato dagli episodi di discriminazione avvenuti a Chinatown a fine gennaio e inizio febbraio, quando l’epidemia di nuovo coronavirus sembrava ancora circoscritta a Wuhan e alla Cina. “All’inizio qui ci sono stati brutti episodi, anche nei locali. Ho sentito di italiani ignorantissimi che andavano lì a dargli contro,” racconta Pietro. Adesso come adesso è un quartiere che non esiste. Se vai a fare un salto in Paolo Sarpi puoi vedere tutte le saracinesche chiuse con cartelli in italiano e in cinese per dire che non si sa quando si riaprirà e se si riaprirà. Cinesi in giro non se ne vede mezzo. Secondo me dato che sono un popolo che si distingue per la propria correttezza e per l’essere molto precisi adesso hanno molta paura di noi.”
Ascoltando le canzoni si può dire che le contaminazioni della città abbiano influito nella varietà di riferimenti contenuti nell’EP. “Interferenze è il brano dove ci incontriamo sulla techno. E tra i riferimenti ci metterei qualche sfumatura di jazz e black music,” spiega Stefano. “La storia di questo EP è che avevo delle demo in cameretta fatte almeno due anni fa, anche tre,” prosegue Pietro. “Questi pezzi hanno quasi tre anni. Con il passare del tempo poi si sono evoluti e li ho passati a loro che hanno dato il loro contributo e sono diventati indefinibili. Ti direi che due anni fa ero molto in fissa con il nuovo jazz inglese, con Yussef Kamal, Jordan Rakei, Richard Spaven. Soltanto che alla fine, di jazz, nell’EP c’è solo una sfumatura. Mi piaceva metterci dentro la musica italiana, dato che due o tre anni fa l’indie italiano era una cosa che mi interessava.”
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L’EP a dire il vero ricorda molto poco l’indie italiano, almeno per come siamo abituati a conoscerlo nella sua deriva mainstream. “Volevamo fare una musica ibrida, in italiano, perché spacca cantare in italiano, e mischiarla con roba che non si sente di solito da noi. Si può dire che è una musica totalmente ibrida.” Per i live invece bisognerà aspettare. “La situazione ci demoralizza abbastanza. Avevamo già due belle date a Milano, una all’Ohibò e una a Mare Culturale Urbano, che purtroppo sono saltate. Detto questo si deve anche reagire e si reagisce semplicemente facendo uscire musica e creando contenuti.”
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