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in copertina, grab via YouTube

Cinque anni fa il governo Renzi rendeva tutti i lavoratori precari. Oggi, di fronte alla nuova grandissima crisi economica internazionale, la politica deve tornare a garantirne la sicurezza

A distanza di cinque anni dai fatti è molto facile pensare solo al Renzi più recente e dimenticarsi che è stato l’autore del più grave attacco ai diritti dei lavoratori in Italia dalla caduta del regime fascista. Il Renzi di oggi è un personaggio dalla reputazione politica rovinata, capo di un partito piccolo e personalistico. Cinque anni fa però era il padrone indiscusso del Partito democratico e della scena politica italiana, abbastanza forte da fare qualcosa che non era riuscito nemmeno a Berlusconi: abolire l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori.

Questo famoso e articolo 18 recitava così: “Il giudice […] con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento […] ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.” La conseguenza di questa legge era che i lavoratori dipendenti avevano un potere contrattuale nei confronti degli imprenditori, che non potevano cacciarli per convenienza economica o ragioni arbitrarie. L’articolo 18 valeva per le aziende con più di 15 dipendenti, ed è stato uno dei motivi che contribuivano a definire la legislazione sul lavoro italiana come tra le più avanzate del mondo. 

Ieri Renzi è tornato a far parlar di sé durante il proprio intervento al Senato, sostenendo che essere “apertisti” voglia dire fare onore alle persone morte di nuovo coronavirus: una parafrasi della retorica di estrema destra che anche Meloni e Salvini stanno cercando disperatamente di importare, e che sembra completamente scollegata dal vero sentimento del paese, soprattutto nelle zone industriali più colpite dal virus, dove al contrario si agita profondo scontento contro i datori di lavoro che hanno costretto le persone ad andare a lavorare

Il Renzi della fine del 2014 invece agiva ancora a carte più coperte, e non raccontava lo smantellamento dell’articolo 18 come un attacco a milioni di lavoratori in favore di una cerchia di pochi ricchi imprenditori. L’articolo 18 nella versione dei fatti renziana è stato semplicemente “superato” con l’introduzione del Jobs act, che ha introdotto il cosiddetto “contratto a tutele crescenti”: un titolo a prima vista incoraggiante, ma in realtà inesatto: le “tutele” a cui si fa riferimento sono infatti alle modalità di calcolo dell’indennità in caso di licenziamento, e non la possibilità di una reintegrazione, che resta soltanto per licenziamenti discriminatori, orali e nulli — per i licenziamenti disciplinari, così come quelli che riguardano la sfera delle disabilità, il reintegro è in mano al giudice.

È importante a questo punto far notare che un atto così grave è stato possibile per la situazione politica che si era venuta a creare in Italia all’inizio del decennio. Il paese stava faticosamente uscendo dalla crisi economica e finanziaria più importante degli ultimi decenni, che aveva avuto tra le conseguenze la nascita del governo Monti nel 2011, ma le imprese erano forti rispetto ai lavoratori come non lo erano mai state: essendoci pochissima disponibilità di occupazione, potevano avere il coltello dalla parte del manico rispetto ai lavoratori, una dinamica che era già stata inquadrata dalla Legge Fornero del 2012, che aveva drasticamente contenuto i margini dell’articolo 18.

La promessa con cui Renzi aveva provato a indorare la pillola del Jobs act è stata infatti l’alleviamento della piaga del precariato. Lo scambio proposto tutto sommato era chiaro: diamo la possibilità agli imprenditori di licenziare con più facilità, così assumeranno più volentieri le persone — se sanno di poterle cacciare senza preoccuparsi troppo, quando lo desiderano. Negli ultimi cinque anni il mercato del lavoro è mutato ma la piaga del precariato non se n’è andata. Anzi, ha cominciato a manifestarsi sotto forme ancora più estreme e insidiose come quelle a cui sono soggetti, per esempio, i rider. O con il continuo proliferare di lavoro nero, finte partite IVA, stage e contratti a tempo determinato, il cui numero è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo. 

– Leggi anche: I rider continuano a lavorare senza tutele, e noi ci preoccupiamo del decoro pubblico

I contratti a tempo indeterminato sono cresciuti soprattutto nei primi mesi dall’entrata in vigore della riforma renziana, e nello stesso periodo sono aumentati anche i licenziamenti. Ecco quello che nel marzo 2018 osservava il direttore dell’INPS, Tito Boeri, insieme a Pietro Garibaldi:

Il nuovo contratto ha chiaramente reso più flessibile il mercato del lavoro e aumentato la mobilità di imprese e lavoratori. Per molti anni, Matteo Renzi ha sostenuto che il nuovo contratto avrebbe aumentato le assunzioni. Susanna Camusso diceva invece che sarebbero aumentati i licenziamenti. Avendo a disposizione le carriere lavorative di circa 6 milioni di lavoratori, sappiamo oggi in modo scientifico che avevano ragione entrambi su questo punto. Va peraltro ricordato che l’aumento di assunzioni del 50 per cento corrisponde a un numero molto più grande rispetto all’aumento dei licenziamenti del 50 per cento e che l’occupazione totale è aumentata nel triennio analizzato.

È importante però fare una puntualizzazione su quest’ultima considerazione: l’occupazione nell’ultimo triennio non è aumentata solo per la riforma del mercato del lavoro renziana, ma per congiunture economiche indipendenti, inquadrabili nella generale crescita economica che ha coinvolto l’Europa — di cui l’Italia è stata comunque il fanalino di coda. L’aumento dell’occupazione va letto come una contraddizione: c’è stato più lavoro e le aziende hanno fatturato di più — ma i loro dipendenti si sono trovati con meno diritti e meno potere rispetto a prima.

La situazione però è cambiata in modo drammatico con l’arrivo della pandemia di nuovo coronavirus. Ci stiamo tuffando in una crisi economica ancora più grave di quella da cui siamo faticosamente usciti. I lavoratori dipendenti costituiscono ancora il vero motore della società italiana, per quanto la retorica liberista e startuppara degli ultimi 25 anni abbia provato a convinverci che siamo tutti imprenditori, e oggi grazie anche alla liberalizzazione dei licenziamenti promossa dal Jobs act sono particolarmente a rischio. In questo momento più che mai sono necessarie tutele per i loro diritti come lavoratori e come persone.

Non è un caso che con un tratto di penna il governo abbia dunque deciso di congelare i licenziamenti fino al 16 maggio. Negli Stati Uniti, dove il mercato del lavoro è molto più sregolato che da noi e nessuno si è degnato di limitare la libertà degli imprenditori di lasciare per strada le persone da un giorno con l’altro, l’arrivo della pandemia si è tradotto in almeno 30 milioni di licenziamenti. Il timore diffuso è che, una volta sollevato il blocco, ci sia un’ondata generale di licenziamenti anche in Italia.

Nel cosiddetto “decreto aprile” — che però uscirà a maggio, e quindi forse si chiamerà decreto maggio — è prevista la proroga di altri due mesi allo stop ai licenziamenti. Difficilmente, però, questa crisi verrà risolta nel giro di due mesi. È il momento quindi di pensare a una reintroduzione dell’articolo 18, o di una forma simile di tutela per i lavoratori, che sia permanente. E non collegata a quando gli imprenditori torneranno ad arricchirsi grazie al lavoro dei propri dipendenti, che in quel momento potranno tornare a licenziare.

Il segretario della CGIL Landini, in un’intervista pubblicata oggi sull’Huffington Post, ha dichiarato che: “È tempo di un nuovo Statuto dei Diritti che si riferisca alle persone che lavorano e non semplicemente al tipo di rapporto attivato. Il lavoro non può più essere solo un fattore della produzione, un numero, un costo sempre e comunque comprimibile. Il diritto del lavoro deve essere riconfigurato, deve comprendere, ad esempio, il diritto alla formazione permanente, deve tutelare e promuovere le nuove condizioni che globalizzazione e innovazione tecnologica pongono.”

È opportuno però ricordare come il primo Statuto dei lavoratori, quello del 1970 in cui era contenuto l’articolo 18, era stato ottenuto: con anni di scioperi, mobilitazione, scontro anche duro dei lavoratori e dei sindacati per promuovere i propri diritti rispetto a quelli dei ricchi e potenti padroni — e Landini lo sa benissimo. Quello del ‘69 era stato il cosiddetto “autunno caldo,” un momento di mobilitazione e di scontro politico difficile da immaginare oggi, se la principale forma di aggregazione per i lavoratori italiani è, come sembra essere, la mite CGIL guidata da Landini.

Non c’è giorno migliore rispetto al Primo maggio per immaginare davvero un nuovo scenario nel mercato del lavoro italiano, ricordandosi ad esempio che la retorica della concordia sociale a tutti i costi può essere molto pericolosa per i diritti dei più deboli. Uno stato deve decidere da che parte stare: se tutelare soprattutto gli interessi dei più forti, ovvero di chi ha più soldi e detiene più potere politico ed economico, o dei più deboli, che per sopravvivere con dignità necessitano di uno stipendio, sono politicamente meno forti e molto meno ricchi di qualsiasi imprenditore che è stato avvantaggiato dall’abolizione dell’articolo 18.

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