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Lo studente egiziano dell’università di Bologna è in carcere dallo scorso 7 febbraio e l’udienza del suo processo preliminare è stata rinviata per sei volte di fila, ma il governo italiano non sembra intenzionato a spendersi per la sua liberazione.

“Stavolta andrà tutto bene,” si legge sul murale che ritrae Giulio Regeni abbracciato a Patrick Zaki, realizzato dall’artista Laika a pochi passi dell’ambasciata egiziana a Roma. Ma dal 7 febbraio lo studente egiziano dell’università di Bologna continua la sua ingiusta detenzione nella prigione di Tora, al Cairo. Zaki non può parlare né con il suo avvocato né con la sua famiglia dal 9 marzo. Da quella data l’udienza del processo preliminare per “istigazione al rovesciamento del governo e della Costituzione” è stata rinviata sei volte, l’ultima il 22 aprile.  

“Si tratta della prima fase del processo, quella in cui la procura richiede la detenzione per evitare che l’imputato scappi. Secondo la legge egiziana è permesso applicare questa formula solo se non si conosce l’indirizzo dell’imputato o se c’è il rischio di fuga,” spiega Amr Abdelwahab, amico di Zaki dai tempi dell’università al Cairo. “Le cose stanno in questo modo – continua – gli uffici sono chiusi anche se sostengono il contrario. Quindi continuano a rimandare l’udienza e a tenere Patrick in prigione senza base legale”.

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Amr e Patrick, entrambi attivisti per i diritti umani nel movimento studentesco egiziano,  si sono conosciuti nel periodo più delicato nella storia recente dell’Egitto, quando a piazza Tahrir cresceva la speranza di una società migliore: “Prima della rivoluzione io e Patrick eravamo solo due persone che frequentavano la stessa università. Poi abbiamo organizzato una riunione con un gruppo di manifestanti dell’università, e questa è stata la prima volta che l’ho visto.” Da quel momento è cambiato tutto, precisamente da quando l’attuale presidente ed ex generale Abdel Fattah Al-Sisi ha preso il potere nel 2013, rovesciando il governo dei Fratelli Musulmani. 

“Viviamo in uno stato di polizia. Ma non sai esattamente quello di cui tengono traccia. I miei interrogatori riguardavano cose personali avvenute in Europa. Gli stati di polizia funzionano così, cercano di tenere sotto controllo tutto quello che succede,” ricorda Amr, che ora vive a Berlino, dove lavora come ingegnere elettronico. “Questo è il mio settimo anno in Europa perché nel 2013 mi sono trasferito a Budapest, in Ungheria. Poi sono tornato in Egitto e la polizia mi ha obbligato a partire di nuovo nel 2015.” In quell’anno, di ritorno al Cairo, Amr è stato arrestato 4 volte e torturato dalla polizia egiziana: “La tortura ti cambia la vita. Qualsiasi forma va bene: nel mio caso oltre all’elettroshock, alle percosse hanno utilizzato la distorsione del tempo attraverso suoni come la chiamata alla preghiera. La seconda volta sono stato arrestato per 50 ore, ma nella mia testa sembrava essere passato un mese”. 

In piena emergenza coronavirus, con 4.319 casi positivi e 307 decessi (dati del 25/04), l’Egitto è in lockdown. Preoccupano le condizioni di Zaki, che è asmatico e detenuto in uno dei peggiori sistemi carcerari al mondo: “Pensate a questo, c’è la quarantena e vostro figlio è bloccato in un posto dove c’è la peggiore igiene del mondo. Dove migliaia di persone muoiono per aver contratto malattie. Queste sono le prigioni egiziane, che hanno la più grande densità di detenuti al mondo,” spiega Amr. La famiglia non riesce a mettersi in contatto con lo studente, nelle mani della polizia egiziana da più di due mesi: “In queste condizioni le aspettative sono basse. Loro vogliono solo sapere se Patrick sta bene. Non ho mai visto la sua famiglia tanto scoraggiata come in queste settimane. Sua madre lo ha sempre sostenuto ma ora non ce la fa più. Adesso non ce la fanno più”. 

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Nel rapporto Freedom In The World 2020, Freedom House ha indicato l’Egitto come un paese non libero, dove la censura e la repressione travolgono libertà politiche e diritti civili. Nel 2019 questo bilancio si è aggravato a causa di due aspetti in particolare, sottolinea il rapporto: in un referendum illiberale il presidente Al Sisi ha ottenuto la possibilità di restare al governo fino al 2030 (il vincolo era in precedenza fino al 2024); migliaia di persone appartenenti all’opposizione sono state detenute in seguito alle proteste di settembre contro la corruzione del regime. I servizi di sicurezza avrebbero migliorato le loro tecniche di sorveglianza, per monitorare meglio i social media e le app per smartphone. Nel 2018, grazie alla legge sulla regolamentazione della stampa, il governo può monitorare chiunque abbia più di 5 mila follower. Dopo le proteste di settembre 2019, anche attivisti egiziani residenti all’estero – riporta Freedom House – hanno notato attività sospette sui loro account Twitter.

In un articolo del Washington Post si parla di uno studente dell’American University che mandava articoli via WhatsApp ai suoi genitori per informarli di quello che stava succedendo nei giorni delle proteste. È stato scoperto, arrestato, detenuto e picchiato. “Questo articolo non si poteva leggere in Egitto. Questo era uno degli articoli che dovevamo cancellare immediatamente dalla cronologia di Google. Ci sono state proteste a settembre 2019 che hanno coinvolto poche centinaia di persone, ma ne sono state arrestate 4 mila perché chiunque diventava un sospetto. Da me la polizia è venuta tre volte a controllare in casa e a capire chi fossimo, cosa facessimo. Ci sono tantissimi Giulio, Patrick di cui non si sa niente” racconta una cooperante italiana, che ha vissuto e lavorato al Cairo nel 2019.

“Da me la polizia è venuta tre volte a controllare in casa e a capire chi fossimo, cosa facessimo. Ci sono tantissimi Giulio, Patrick di cui non si sa niente”

Perché le persone vengono arrestate arbitrariamente in Egitto? “Chiedere perché su qualsiasi cosa accada in un dittatura non ha senso,” risponde Amr, “Patrick è stato arrestato semplicemente perché volevano arrestarlo, non hanno bisogno di giustificare le loro azioni. Ma certamente c’è una spiegazione più profonda. Il governo ha agito per vendicarsi, per dare una punizione contro chi ha partecipato alla rivoluzione del 2011. Il nostro presidente lo dice apertamente: quello che è successo nel 2011 non succederà più finché ci sono io. Una punizione e una garanzia.” 

In Italia Amnesty International ha lanciato la campagna #freepatrickzaki, appello condiviso dall’Università di Bologna e dagli amici e colleghi di Zaki. Lo stesso impegno non è arrivato dal governo italiano e dalla Farnesina. “Seguiremo da vicino il processo Zaki”, ha dichiarato il 9 febbraio il ministro Di Maio. Dall’Egitto era arrivata secca la replica: “Zaki non è cittadino italiano”. Da quel momento il governo non ha più rilasciato dichiarazioni di supporto sul caso Zaki. In un’intervista a Focus on Africa, Erasmo Palazzotto, presidente della commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di Giulio Regeni, aveva dichiarato; “Nel mio ruolo quello che posso dire è che gli strumenti utilizzati fino ad ora non sono stati efficaci. Zaki è uno studente di un’università italiana, non rappresenta alcuna minaccia per il regime egiziano, la sua detenzione lancia un messaggio chiaro di sfida nei nostri confronti.” Da Berlino, Amr Abdelwhab si chiede: “Pensate che le istituzioni italiane stiano facendo abbastanza per la situazione in Egitto? Lasciamo perdere Patrick per un attimo… Pensate che stiano facendo abbastanza per il caso di Giulio Regeni?”

in copertina, foto via Amnesty International