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in copertina, foto © Unione Europea, fonte EC – Audiovisual Service 

L’incarico a “proteggere lo stile di vita europeo” nella Commissione europea non è una gaffe, ma una dichiarazione programmatica.

Il nuovo corso della Commissione europea targata Ursula von der Leyen non poteva iniziare nel peggiore dei modi, almeno per quanto riguarda l’immigrazione. La settimana scorsa, quella della presentazione della squadra di commissari della nuova legislatura (resteranno in carica fino al 2024), è stata infatti segnata dall’infelice scelta del nome del portafoglio alle Migrazioni. “Proteggere lo stile di vita europeo” recitava la didascalia sotto la foto di Margaritis Schinas, il funzionario europeo di lungo corso e membro del partito greco Neo Demokratia, nonché ex portavoce della Commissione di Jean-Claude Juncker, a cui von der Leyen ha affidato l’incarico. 

Quell’associazione di idee, quasi uno slogan, che peraltro lo stesso Schinas ha evitato con cura al momento di aggiornare il proprio profilo Twitter, è stata giustamente criticata da molti, a Bruxelles e non solo, perché pare ripresa da un volantino di Casapound. Amnesty International in una nota ufficiale ha accusato la Commissione di inviare un “messaggio preoccupante”, ricordando che “lo ‘stile di vita europeo’ che l’Unione europea deve proteggere è quello che rispetta la dignità umana e i diritti umani, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo stato di diritto”.

L’organigramma della Commissione von der Leyen. Schinas è il primo a destra della quinta fila dall’alto (fonte: Commissione europea su Twitter)

Dietro quella che potrebbe sembrare una gaffe si cela in realtà una precisa linea politica, peraltro non nuova per chi conosce il Partito popolare europeo (Ppe), di cui fa parte la stessa von der Leyen. Basti pensare che lanciando la propria corsa alla presidenza della Commissione, il principale candidato dei popolari, il tedesco Manfred Weber, aveva elencato tra le proprie battaglie proprio difendere “la sopravvivenza del nostro stile di vita europeo”. Il fatto che all’indomani delle elezioni il nome di Weber fosse stato scartato dalla rosa dei papabili alla presidenza aveva illuso qualcuno che con von der Leyen la Commissione sarebbe stata più moderata, se non più a sinistra. Ebbene, si può già dire che non è così.

In generale, l’abbinamento sicurezza-immigrazione è uno dei dogmi dei popolari. Ad esempio, nel loro manifesto programmatico per le scorse Europee “l’immigrazione illegale” veniva messa sullo stesso piano del “terrorismo” e del “crimine organizzato” tra le più pericolose minacce per i cittadini europei. Del resto i popolari, nel disperato tentativo di recuperare i voti confluiti verso l’estrema destra, sono stati recentemente protagonisti di uno spostamento a destra dell’asse politico, testimoniato soprattutto da un approccio securitario e nazionalista sull’immigrazione.

Se questa è la linea del Ppe, di cui come detto sopra fanno parte sia la presidente sia il nuovo commissario europeo alle migrazioni e alla sicurezza, non ci sarebbe da stupirsi se la nuova Commissione non spingerà molto per cambiare l’approccio dell’Ue in senso umanitario e solidaristico. Al contrario, è verosimile che le priorità dell’esecutivo europeo, anche e soprattutto da un punto di vista comunicativo, saranno il contrasto all’immigrazione irregolare – in particolare la lotta ai trafficanti nel Mediterraneo – e il controllo delle frontiere esterne. Tendendo quindi ancora una volta ad un approccio securitario.

Tuttavia, il ruolo della Commissione in questa materia rimane molto limitato. L’immigrazione è infatti tra le politiche più delicate dal punto di vista della sovranità nazionale e resta di chiara competenza degli Stati membri. Per questo, più che al rinnovamento della Commissione, è ai governi nazionali che bisogna guardare per chiedersi quanto cambieranno le politiche dell’Ue nel futuro a breve termine.

Un vero cambiamento in materia di gestione europea dei migranti e dei richiedenti asilo passa inevitabilmente dalla riforma del famoso regolamento di Dublino, quello che impone al primo Paese di sbarco di farsi carico dei richiedenti asilo che arrivano nell’Ue. Sotto questo aspetto non vanno attesi progressi imminenti, anzi. Come spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato palermitano ed esperto di politiche migratorie, “i propositi di una riforma del regolamento di Dublino appaiono fumose e prive di tempi certi, anche per la feroce opposizione del Consiglio europeo, influenzato dai Paesi del gruppo di Visegrad”; su tutti Ungheria e Polonia, che finora hanno rifiutato di accogliere anche la più piccola di quota di richiedenti asilo. Su 28 Paesi Ue, quelli che finora hanno accettato il principio della ridistribuzione sono ben pochi: Francia, Germania, Lussemburgo, Irlanda, Spagna e Portogallo, più il Paese che ha la presidenza di turno del Consiglio Ue (prima la Romania e ora la Finlandia).

Senza un superamento delle regole di Dublino, non resta che trovare un accordo su un meccanismo automatico di ridistribuzione dei migranti, con quote predefinite tra Paesi volontari. Proprio di ciò si discuterà nel mini-vertice sull’immigrazione che andrà in scena a La Valletta (Malta) il prossimo 23 settembre. Al summit parteciperanno i ministri dell’interno di Malta, Italia, Francia, Germania e Finlandia e la Commissione europea. Secondo diverse fonti, la bozza del documento sul tavolo prevede un aiuto sostanziale da parte di Francia e Germania, pronte ad accogliere ognuna il 25% di chi sbarcherà in Italia e Malta (anche se non prima di un mese). Difficilmente Roma e La Valletta si accontenteranno di un tale accordo, anche se il loro potere negoziale in questa trattativa è pressoché zero.

La prossima occasione per discutere di immigrazione sarà la riunione dei ministri dell’Interno Ue in programma il 7 ottobre in Lussemburgo. Sarà un momento chiave per tentare di coinvolgere altri “volontari” sulla base dell’eventuale accordo sulla ridistribuzione raggiunto a Malta.

Tutto ciò mentre all’orizzonte incombe la figura di Erdogan, tornato a minacciare l’Unione europea di smettere di trattenere i rifugiati siriani in Turchia se non si terrà fede fino in fondo all’accordo del 2016. Ankara chiede lo sblocco delle risorse economiche promesse dall’Ue, che finora ha pagato ai turchi solo 2,2 dei 6 miliardi previsti. Inoltre, Erdogan vorrebbe l’appoggio di Bruxelles alla costruzione di una nuova “safe zone” controllata dalla Turchia nel nord-ovest della Siria, dove far tornare i rifugiati.

Insomma, la nuova Commissione non sembra in grado di cambiare le carte in tavola quando si tratta della gestione condivisa dei migranti. Ancora una volta la palla è nel campo dei governi degli Stati membri, e, come in ogni trattato internazionale, si procederà lentamente e senza grandi garanzie di successo.

Attualmente, grazie ai bassi numeri anche durante l’estate, gli arrivi sono facilmente gestibile da Italia e Malta, che al di là delle apparenze mediatiche non vivono affatto una situazione di emergenza (salvo per il sovraffollamento delle strutture per l’accoglienza dei profughi sull’isola di Lampedusa). Tuttavia, per trovare una soluzione stabile a livello europeo, che tenga conto del fatto che chi sbarca sulle coste italiane o maltesi arriva nell’Ue, Roma e La Valletta dovranno per l’ennesima volta navigare a vista, sperando nella solidarietà degli Stati più ricchi e dei governi più moderati.

D’altro canto, la gestione degli sbarchi in Italia delle persone soccorse dalle Ong, dopo la dipartita di Matteo Salvini dal ministero dell’Interno, dovrebbe essere più ordinata, sicuramento meno feroce, specie in caso di accordo su un meccanismo permanente di ridistribuzione. Anche se il caso recente della Ocean Viking, a cui è stato assegnato un porto sicuro dopo una settimana in mare, e le continue sparate di Di Maio non danno troppe garanzie. In ogni caso, i “porti chiusi” salviniani vanno considerati alle spalle, almeno per il momento. Allo stesso tempo, una vera politica migratoria europea è ancora lontana dall’entrare in acque sicure.

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