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Nell’ultimo capitolo del nostro reportage raccogliamo le testimonianze di chi è riuscito a superare il confine e arrivare in Europa, dove spesso l’accoglienza e le possibilità di inserimento lavorativo non sono quelle che ci si aspettava durante il viaggio.

“Ciao amico, sono finalmente al sicuro, sono a Parigi.”

Ci sediamo di fronte al computer per parlare con Amir, il ragazzo sudanese di cui avevamo parlato nel primo capitolo del nostro reportage. Era il 29 settembre e Amir stava affrontando il quinto tentativo di superamento della frontiera bosniaco-croata. Questa volta ce l’ha fatta. È arrivato prima a Trieste e poi, dopo poche ore, è salito su un treno per Parigi. “Non posso descrivere come mi sentivo in Bosnia, sto male ogni volta che ci penso.”

E qual è, chiediamo noi, la differenza rispetto all’attesa che dovrai affrontare in Francia? “Mi sento in vita, questa è l’enorme differenza. Ho ancora molti amici a Velika Kladusa e sono preoccupato per loro, non so come faranno ad affrontare l’inverno, spero che riescano presto a oltrepassare il confine.”

Amir ci racconta che ha fatto domanda d’asilo e che in questo momento è in attesa di essere inserito all’interno di un centro d’accoglienza. Si è messo in contatto con “France terre d’asile,” un’associazione fondata nel 1971 con l’obiettivo di supportare i richiedenti asilo politico presenti sul territorio francese. Amir ha studiato francese per due anni in Sudan e ci spiega che ha eletto la Francia come paese di destinazione perché “alcuni amici sono migrati in Francia molti anni fa e mi hanno consigliato di venire qui. Sogno di poter tornare a studiare e di trovare al più presto un lavoro. È solo una questione di tempo ormai.” Ci salutiamo, con la speranza di rivederci presto.

“Sono salvo. Mi sento al sicuro, non devo più preoccuparmi di cercare un rifugio per la notte, cibo, acqua calda. Questo ti cambia la vita.” Così riassume il suo stato d’animo Kabadayi, giovane ventinovenne palestinese, protagonista del primo video del reportage. È arrivato in Belgio un mese fa. Ci racconta che in questo momento vive in centro d’accoglienza a un’ora circa dalla capitale.

“Ho deciso di venire in Belgio perché, informandomi sulla procedura d’asilo, ho capito che i tempi d’attesa di un permesso di soggiorno sarebbero stati inferiori rispetto ad altri Paesi dell’Unione europea. Se la Germania avesse una procedura più rapida, sarei sicuramente andato lì.”

Kabadayi sottolinea come la parte più dura sia ormai alle spalle. Anche lui, come Amir, non ha parole per spiegare come si sentiva in Bosnia. Ripete più volte: “La vita è al sicuro adesso, posso ricominciare a sognare.”

Non sappiamo se Abdelmajid, anche lui protagonista del primo capitolo del reportage, sia riuscito a mettersi in salvo. Non siamo più riusciti ad aggiornarci. Era partito lunedì 30 ottobre e dopo pochi giorni il suo telefono non era più raggiungibile.

L’Europa diventata casa

“Non avevo altra scelta, ero obbligato a venire in Europa. Sono arrivato nel 2015 e sono stato immediatamente inserito in un centro d’accoglienza a Trento.” Dildar, ragazzo proveniente dal Pakistan, ci racconta che l’Italia gli veniva raccontata da alcuni connazionali emigrati molti anni prima di lui. Leggeva le loro storie su internet e così si è costruito l’immagine del “bel Paese,” un posto accogliente e terreno fertile per trovare lavoro. “Non so cosa fare, ho fatto molti mesi di tirocinio come saldatore, ma purtroppo non sembrano esserci prospettive di lavoro. Mi sento isolato e il paese non è accogliente.”

Dildar vive a Roncone, un piccolo borgo situato nell’alta Valle del Chiese, in Trentino Alto Adige, teatro, nel marzo del 2017, di un “attentato incendiario alla casa dei richiedenti asilo,” chiaro sintomo dell’intolleranza di alcuni abitanti del paese. “Sono stato trasferito a Roncone con la promessa di trovare lavoro. Ho frequentato un tirocinio formativo per un anno e sono ancora precario. So che ci sono delle aziende a Trento in cerca di saldatori a filo continuo, tecnica che devo assolutamente imparare.”

Dildar è ancora in attesa del permesso di soggiorno. Ci racconta di essere stato sentito dalla Commissione territoriale di Verona nel 2017 ma la sua domanda non è stata accolta. Ha fatto ricorso in tribunale e l’udienza è fissata per la primavera del 2019. “Cinformi [il Centro Informativo per l’Immigrazione di Trento, ndr] ha fatto molto in questi anni, mi ha aiutato a inserirmi nel mondo del lavoro, anche se solo per alcuni mesi. Gli operatori mi sono stati vicini e non so cosa succederà, per noi sarà ancora più difficile.”

Il neo eletto presidente leghista Maurizio Fugatti ha condotto un’intera campagna elettorale all’insegna della “minaccia di smantellamento” di Cinformi: “Quello che Cinformi sta facendo oltre all’ordinaria e dovuta amministrazione verrà ridimensionato ed eventualmente cancellato. Chiamare aziende per piazzare i profughi a lavorare è una forma di assistenza che non può esistere, tutto ciò verrà cancellato. Si è fatto troppo e questo ha creato un business.” Fugatti riassumeva in questi termini le intenzioni politiche della Lega all’alba della campagna elettorale per la presidenza della provincia autonoma di Trento. Si è votato il 21 ottobre e la coalizione di centrodestra ha ottenuto uno storico 46% dei voti.

“Siamo preoccupati, tira un’aria di pesante incertezza.”

Così descrive l’ambiente di lavoro un’operatrice di Cinformi che preferisce rimanere anonima. Ci racconta che il “modello Cinformi” è sotto attacco da ormai molti mesi.

“Siamo psicologi e psicologhe, assistenti sociali, operatori e operatrici di accoglienza e orientamento al lavoro, operatori e operatrici legali, mediatori e mediatrici culturali, facilitatori linguistici e operatrici di comunità. Siamo professionisti che operano come figure ponte per facilitare l’accesso ai servizi e favorire l’incontro tra i migranti e le comunità locali, accompagnandoli nel loro percorso legale e di sviluppo della propria autonomia, sostenendo in particolare le persone più vulnerabili,” si legge in una lettera sottoscritta da 130 operatori dell’accoglienza in Trentino e inviata ai giornali il 18 ottobre per porre l’attenzione su un “sistema in pericolo.” Una realtà, quella di Cinformi, che ha lavorato intensamente negli anni per garantire l’applicazione della Convenzione di Ginevra e il rispetto dell’art.10 della Costituzione Italiana.

“Ero un ingegnere informatico nel mio Paese ma il mio titolo di laurea non vale nulla in Italia. Ripartirò tra poche settimane per Madonna di Campiglio, per la stagione invernale.” Monir è un giovane ragazzo bengalese, arrivato in Italia nel 2016, quando la rotta balcanica non era ancora sigillata. Fa il cameriere in un hotel e da pochi mesi vive in un appartamento con alcuni connazionali, dopo che il suo progetto d’accoglienza è giunto al termine. Ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari — una forma di protezione che ora viene messa in discussione dal “decreto sicurezza” voluto dal Ministro degli Interni Matteo Salvini, ritenuto incostituzionale da parte della VI commissione del Consiglio superiore della magistratura.

“È difficile vivere in Italia. Ho incontrato molte persone buone ma mi sento spesso guardato male e giudicato quando vado in città. Stavo parlando con un ragazzo e ha cambiato posto a sedere appena gli ho detto che vengo dal Bangladesh.”

Monir è arrivato in Italia convinto che il Paese potesse offrirgli delle buone opportunità lavorative — questo è quanto gli veniva raccontato durante il viaggio. Sogna di poter ricominciare a studiare e spera di poter portare la sua famiglia in Italia al più presto, ma ciò non gli è possibile perché il permesso di soggiorno per motivi umanitari “non consente il ricongiungimento familiare”. C’è un alone di tristezza negli occhi di Monir quando ci racconta che non vede i figli da tre anni. Si vergogna a dirci che se avesse saputo che sarebbe andata così probabilmente non sarebbe nemmeno partito. “Speravo di poter garantire un futuro migliore alla mia famiglia, ma sembra impossibile.”

“Capita sempre più spesso che si presentino persone a colloquio raccontando di essere state vittime di episodi di razzismo. Insulti, rifiuti, commenti xenofobi.” Ce lo racconta una psicologa che opera al Cinformi, e anche lei ci chiede di poter rimanere nell’anonimato.

Trento, come molte altre province d’Italia, sta cambiando volto. Pensiamo alle dichiarazioni della leghista Katia Rossato, da poco eletta consigliera provinciale, che poche settimane fa allarmava gli abitanti della Vela, piccola frazione di Trento che ospita alcuni richiedenti asilo, dicendo che “i bambini stranieri occupano le altalene del parco giochi.” Pensiamo a ciò che è successo a metà ottobre a Lodi, dove oltre 300 famiglie extracomunitarie sono state escluse dalle mense scolastiche comunali.

Pensiamo alle aggressioni verbali ai danni di alcune persone straniere lungo una delle tratte della Circumvesuviana, nel napoletano. Pensiamo al recente sgombero del campo informale gestito da Baobab Experience dietro alla stazione di Roma Tiburtina, nato nel 2017 come punto d’accoglienza per i molti migranti in transito dalla Capitale e per coloro che non avevano ottenuto accesso ad un alloggio. Pensiamo alla solidarietà messa alla sbarra nel caso di Mimmo Lucano. “Da militante del movimento studentesco pensavo di poter partecipare alla costruzione di un mondo migliore. Poi quella via in Italia si è smarrita, ma a me è rimasta la voglia di fare qualcosa di concreto. Provarci non è stato semplice,” dichiarava Lucano a Repubblica nel 2016.

Tutto questo è successo negli ultimi mesi, riflesso di una propaganda dell’odio che sembra attecchire ovunque in Italia. Un Paese, il nostro, in cui la solidarietà è sotto attacco, criminalizzata e considerata atto eversivo.

“Vorrei sentirmi al sicuro, questa è la ragione del viaggio.” Questo il sogno che accomuna tutte le persone che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino al loro fianco. “Voi italiani siete brave persone.” Abdullah ce lo diceva guardandoci fisso negli occhi. Guardiamo l’Italia da dentro, oggi. La osserviamo al nostro ritorno dopo esser giunti al capolinea del nostro viaggio in terre di passaggio.

Ringraziamo di cuore Samina, Abdullah, Hatab, Meri, Omar, Habab, Ali, Jhon, Emmanuel, Nomann, Isakhel, Rohid, Jamshid, Abdelmajid, Kabadayi, Amir, Salah e Samir e tutte le persone che abbiamo incontrato lungo il cammino, per aver condiviso il loro tempo con noi e per averci insegnato il valore dell’accoglienza, la bellezza della condivisione e il potere della resistenza.

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The Game è un reportage per documentare il “gioco” crudele a cui sono costretti i migranti che vogliono oltrepassare il confine tra Bosnia e Croazia. Leggi le altre puntate.

Il collettivo “Checkmate” è composto da due cineasti, Luca e Francesco e da Paolo, ex operatore d’accoglienza.  Se hai voglia di sostenere il progetto, partecipa alla nostra raccolta fondi e seguici su Facebook. Siamo online anche su Osservatorio Balcani e Caucaso.


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