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Lo staff di Change Italia si è limitato a inserire un blando messaggio fissato in cima alla pagina della campagna, creata come attacco contro Osakue, già vittima di una aggressione.

Change.org è una piattaforma online che permette a chiunque di creare un account e lanciare una petizione, di qualsiasi natura. Sebbene la petizione online non abbia alcun valore legale, bisogna ammettere che ha una forza mediatica non indifferente — capace di far presa sul sentimento popolare. Una volta pubblicata, è alla portata della firma di tutti. Si impiega un attimo a creare una petizione ed è altrettanto facile digitare il proprio nome per sostenerla. È così che deve essere nata anche quella indirizzata alla Federazione Italiana di Atletica Leggera, lanciata da un giorno all’altro da un certo Alex Cioni, che chiede l’esclusione dell’atleta italiana Daisy Osakue dai campionati europei di questi giorni. La colpa della giovane sarebbe quello di aver inutilmente gridato al razzismo, in seguito alla vicenda che l’ha vista ferita a un occhio dal lancio di uova da parte di tre neo diciottenni del torinese.

Come volevasi dimostrare le “uova razziste” c’entravano come il cavalo a merenda. Fosse per me Daisy Osakue la ritirerei dalla competizione sportiva di atletica leggera che andrà in scena a Berlino la prossima settimana. Senza avere elementi oggettivi si è gettata a capofitto (consapevolmente) in una strumentalizzazione sul razzismo inesistente, ben supportata per l’occasione dai media mainstream.

screen-shot-2018-08-10-at-16-47-54L’incipit della petizione ha il tono di un personalissimo — e discutibile — j’accuse. Abbiamo perso solo due minuti a scovare questa voce autorevole dell’etica sportiva: Alex Cioni ha un blog, seguito da ben 82 persone, che la dice lunga sulle motivazioni che l’hanno spinto a indirizzare questa richiesta alla FIDAL. Uno dei suoi ultimi post, datato 9 agosto 2018, porta il titolo “No Sky, no party. Vogliamo vedere il campionato di calcio, scatta la protesta dei sedicenti profughi”, citando come fonte il Giornale di Vicenza, senza linkare il pezzo (presumiamo questo). La notizia ha poi fatto il giro dei giornali online, ma come riporta il Corriere è stata smentita dalla Procura. Un sito, il suo, che si presenta come una raccolta di notizie dai titoli appariscenti su sedicenti profughi.

Il petente Alex Cioni è inoltre portavoce di PrimaNoi, un comitato vicentino che sembra aver fatto proprio lo slogan Prima gli italiani del Ministro Salvini, e nel gennaio dello scorso anno è stato condannato a cinque giorni di carcere, nonché a un’ammenda che supera i 1000 euro per aver organizzato una manifestazione non autorizzata nel tentativo di appendere uno striscione anti-profughi in una struttura alberghiera chiusa da anni, che avrebbe dovuto ospitare un gruppo di richiedenti asilo.

Questo il contesto in cui è nata la petizione contro Daisy Osakue, che mentre scriviamo queste righe Change.org non ha ancora rimosso. A molti utenti iscritti al sito non è però sfuggito quello che la piattaforma sembra aver ignorato: la petizione per escludere Daisy Osakue dagli europei non solo contiene informazioni non corrette, ma si scaglia contro una donna già fisicamente ed emotivamente ferita da un’aggressione, continuando a vessarla in un momento in cui un’atleta presumibilmente ha solo bisogno di serenità e concentrazione. Secondo l’appello, l’atleta della nazionale italiana sarebbe responsabile di strumentalizzare “consapevolmente” un “razzismo inesistente”, “con fini tutt’altro che nobili, facendo persino prevalere gli interessi del Partito Democratico. Di razzismo in Italia si parlato a fondo in questi giorni: la mappa delle aggressioni a sfondo razzista di Luigi Mastrodonato ci dimostra quanto “inesistente” non sia la parola appropriata per descrivere il problema, con the Submarine stiamo cercando di mantenere una lista aggiornata di tutte le aggressioni.

A fronte delle molteplici segnalazioni ricevute, il team policy di Change ci fa sapere di essersi attivato per verificare la petizione in questione, e di averne già disattivato commenti e disclaimer, chiedendo informazioni a chi l’ha creata.

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“La petizione in questione è già oggetto di verifica dal nostro team policy”, ci risponde su Twitter l’account ufficiale di Change Italia, ma — ci chiediamo — questi controlli non potevano essere effettuate prima della pubblicazione? La credibilità del soggetto è facilmente verificabile.

Eppure, l’intervento dello staff di Change Italia si limita a un blando messaggio fissato sulla pagina di questa campagna sociale. “Abbiamo ricevuto segnalazioni dai nostri utenti che ritengono i seguenti contenuti privi di fonte o contestabili. Prima di firmare o condividere considera la possibilità di fare ulteriori ricerche su questo tema”, riporta. Ma la petizione continua ad essere visibile sul sito, e ha già raggiunto e superato il tetto di 5mila firme richieste inizialmente. Ora l’obiettivo è stato alzato a 7500 firme, e il numero di chi sottoscrive l’appello è in crescita — forse perché è più semplice digitare il proprio nome che fare una ricerca. È il click activism.

In fondo, però, bisogna ammettere che la posizione assunta dall’azienda è perfettamente in linea con i termini e l’attendibilità del servizio offerto. Al punto numero quattro, per esempio, si possono leggere le condizioni che permetterebbero a Change di essere una Piattaforma aperta: “Noi non monitoriamo né verifichiamo le petizioni o gli altri contenuti inviati dagli utenti, né li valutiamo sotto il profilo della loro conformità con le leggi e i regolamenti nazionali o esteri”. Insomma, è la stessa società ad ammettere la fallacia delle petizioni che “rappresentano le differenti opinioni di milioni di persone”.

Change richiama il cittadino vendendogli con una mano l’illusione di poter cambiare il mondo e prendendo con l’altra quello che gli viene offerto in cambio di una firma inutile o quasi: due occhi e una mail a cui inviare promozioni sponsorizzate a pagamento, in un circuito infinito di nuove campagne di mobilitazione da poltrona. Sembra che l’impegno sociale senza la scomodità di scendere in piazza abbia, in fondo, un prezzo.


Dato che non siamo più nel 1997, ci si potrebbe augurare almeno di avere uno strumento serio, certificato e magari no-profit per le petizioni online.
Change.org è diventato lo specchio dell’attualità italiana


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