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Il contrasto all’immigrazione non è soltanto il tema su cui la Lega ha costruito la propria campagna elettorale: è anche quello su cui può raccogliere più facilmente risultati e consensi.

Era già scritto sin dalla notte del 4 marzo, appena è stato chiaro che la Lega avrebbe rivestito un ruolo di primo piano nella formazione del nuovo governo in quasi tutte le sue conformazioni praticabili: una volta sbarrata la via alla Presidenza del Consiglio, Salvini avrebbe preteso per sé il Ministero dell’Interno.

Questa eventualità si è sbloccata già dalle prime fasi della trattativa con il Movimento 5 Stelle, quando i due leader hanno accettato di fare il famoso “passo indietro,” rinunciando a Palazzo Chigi in favore di due ministeri di peso. Ieri, con la chiusura ufficiale dell’accordo e la pubblicazione della bozza “semi-definitiva” del “contratto di governo,” Salvini ha potuto ribadirlo trionfalmente, con un video diretto ai propri sostenitori:

Se parte un governo con la Lega all’interno nelle prossime settimane o nei prossimi giorni, i cinque miliardi di spesa previsti dalla sinistra negli ultimi anni per l’accoglienza e i centri per gli immigrati vengono tagliati, e io dico quanto meno dimezzati, per mettere un po’ di soldi sul capitolo rimpatri, allontanamenti, espulsioni.

I virgolettati attribuiti al leader della Lega al termine della trattativa rendono probabilmente bene il senso della richiesta: “Sui migranti si fa come dico io.” La ragione non è difficile da intuire: non solo sul contrasto all’immigrazione la Lega ha giocato gran parte della propria campagna elettorale (“Prima gli italiani”), ma è anche il tema su cui può mietere più facilmente risultati e consensi. La flat tax e l’abolizione della legge Fornero, con qualche termine ambiguo e un paio di piroette retoriche, si possono facilmente trasfigurare in qualcos’altro senza troppo rumore (la flat tax nel “contratto” prevede più aliquote e quindi non è più flat, l’abolizione diventa “superamento,” e così via).

Ma nel frattempo serve qualcosa di lampante, che dimostri immediatamente all’elettore che il suo voto è stato ben speso: e non c’è niente di più facile che fare quello che la Lega di Salvini riesce a fare benissimo da cinque anni — prendersela sistematicamente con i più deboli.

Convegno "No Euro Day" foto cc Fabio Visconti
Convegno “No Euro Day” foto cc Fabio Visconti

Per questo è particolarmente grave la responsabilità politica di chi ha permesso a Salvini, direttamente o indirettamente, di mettere la propria ipoteca sul Viminale: in primis ovviamente il M5S, che con quest’alleanza politica dimostra di non avere la minima volontà di arginare la Lega in nessun campo, e conferma per l’ennesima volta la propria natura di partito politico informe, camaleontico, capace di assumere la consistenza di tutto ciò con cui viene a contatto, senza avvertire alcun sentimento di contraddizione — per la mancanza pressoché totale di idee da contraddire.

Al secondo posto nella conta delle responsabilità c’è il Pd, che rifiutandosi di almeno provare a sfruttare a vantaggio di una politica almeno vagamente progressista questa stessa caratteristica dei 5 Stelle, nel momento in cui c’era la possibilità di farlo, ha aperto la strada al governo che si va formando in queste ore, e l’ha fatto a cuor leggero: l’argomento a sostegno dell’Aventino di Renzi e i suoi, ripetuto a spron battuto per tutta la durata delle consultazioni post-elettorali, è stato: chi ha vinto le elezioni provi a governare, se ci riesce. Così, ciò che resta del primo partito di centrosinistra in Italia ha mostrato ancora una volta la più totale insensibilità nei confronti delle categorie sociali che avrebbe dovuto difendere: ossia coloro che per primi subiranno sulla propria pelle la violenza di un governo leghista.

Una violenza generica e disumanizzante, com’è generico e disumanizzante il paragrafo dedicato all’immigrazione nel “Contratto di governo” pubblicato ieri sera, che esordisce con un evidente terrore di chiamare le cose — e le persone — con il proprio nome:

La questione migratoria attuale risulta insostenibile per l’Italia, visti i costi da sostenere e il business connesso, alimentato da fondi pubblici nazionali spesso gestiti con poca trasparenza e permeabili alle infiltrazioni della criminalità organizzata.

“La questione migratoria,” “il business connesso,” “i diritti dei soggetti”: formule vaghe dietro cui si occultano la carne, il sangue, le storie personali di chi cerca di raggiungere l’Europa. Per gli estensori del contratto si tratta di materia inerte da individuare, identificare, ricollocare, affidare, rimpatriare — mai soggettività a cui sia possibile riconoscere un’autonomia di giudizio e una qualche forma di libertà. Il testo pullula di burocratismi che banalizzano e disinfettano una politica di sostanziale crudeltà: espletamento delle procedure, trattenimento, allontanamento, gestione efficiente, meccanismi attuali, rendicontazione.

Per i richiedenti asilo si prevede velatamente l’inasprimento di quella sorta di “diritto di secondo grado” già previsto dal decreto Minniti-Orlando — che ha rimosso la possibilità di fare appello contro il respingimento della richiesta di protezione internazionale — esteso non soltanto alle pratiche burocratiche per il diritto d’asilo ma anche alla criminalità, per cui si prevede una sorta di aggravante etnica (se commesso da un richiedente asilo, il crimine è più grave).

Ma il capitolo che sta più a cuore a Salvini è quello dei rimpatri degli “irregolari” già presenti sul territorio, cavallo di battaglia della coalizione di centrodestra in campagna elettorale con la stima di 600 mila persone, ridotte a 500 mila nel “contratto di governo.” Ed è forse qui l’aspetto più paradossale della politica da suprematismo-bianco-mediterraneo della Lega: si vogliono sottrarre fondi da un sistema di accoglienza già profondamente disfunzionale (circa 5 miliardi previsti nel 2018, per una percentuale che si aggira attorno allo 0,27% del Pil) non per risparmiarli, ma per spenderli nei rimpatri coatti — senza contare quelli che già stanziamo per bloccare i migranti nel deserto o nei campi di concentramento libici.

Rimpatriare una persona ovviamente costa molto di più che garantirgli una prima accoglienza dignitosa, con stime che vanno dai 4 mila euro a addirittura 25 mila euro pro capite. Si tratta di un’operazione improponibile anche sposando una fredda logica contabile. L’osservatorio di Migrants Files, che ha monitorato i flussi migratori verso l’Europa dal 2000 al 2016, è arrivato già a questa conclusione anni fa: l’integrazione costa meno che le espulsioni.

Ma per il prossimo ministro dell’Interno — quello che annunciava la “pulizia di massa strada per strada, quartiere per quartiere” — non sarà un problema. Non importa davvero dove andranno gli irregolari, i rom, i braccianti agricoli che vivono nelle baraccopoli, gli occupanti: quello che importa, come sempre, è la loro invisibilità, perseguita attraverso una duplice azione di criminalizzazione e repressione. Per questo, l’impronta securitaria e poliziesca del governo che si sta per formare è particolarmente preoccupante.


in copertina, foto cc Fabio Visconti

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