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Cronaca di un pasticcio diplomatico tra Roma, Parigi e Niamey.

C’era una volta la missione militare italiana in Niger: annunciata ufficialmente da Paolo Gentiloni il 13 dicembre scorso e votata in fretta e furia dalla Camera dei deputati — riunita in seduta straordinaria dopo lo scioglimento, il 17 gennaio — al momento non è ancora chiaro se si farà e in che modo, dato che il governo italiano e quello nigerino sembrano pensarla in maniera diametralmente opposta. Come minimo, l’impressione è che si tratti di un memorabile pasticcio diplomatico — passato in sordina.

Cos’è successo negli ultimi quattro mesi

Il 13 dicembre, durante la conferenza stampa congiunta al termine del G5 Sahel — un summit tra i capi di stato e di governo di Francia, Germania, Italia e i cinque paesi del Sahel (Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania, Niger) nel castello della Celle Saint-Cloud, periferia di Parigi — viene annunciata la nascita della “Coalizione Sahel,” con l’obiettivo dichiarato di contrastare il terrorismo nella regione. Si dovrebbe trattare di “un’organizzazione operativa effettiva e reale, con un comando unico a livello regionale, per sostenere sul campo la forza G5 Sahel e l’Alleanza per il Sahel.”

La coalizione potrà valersi di stanziamenti per 50 milioni di euro dall’Unione europea, 60 milioni di dollari dagli Stati Uniti, 30 milioni dagli Emirati Arabi Uniti e 100 milioni dall’Arabia Saudita.

In quell’occasione, Paolo Gentiloni dichiara:

Cominceremo nelle prossime settimane, dopo l’approvazione del Parlamento, con una missione di addestramento delle forze nigerine che partecipano alla forza congiunta del G5 Sahel.

Rispondendo alla domanda di un giornalista della Rai, che chiede dettagli più concreti sull’impegno italiano nella coalizione, il presidente del Consiglio precisa:

La definizione di Coalizione Sahel ci aiuta a capire che ciascun paese deve coordinare i propri impegni bilaterali e deve dare impulso all’Unione europea, per quanto ci riguarda, per rendere sempre più rapida ed efficace la sua iniziativa nei paesi del Sahel. L’impegno italiano sarà anche collegato all’andamento di diverse campagne militari internazionali che hanno avuto successo nelle ultime settimane e mesi […] Noi abbiamo impiegato 1000 militari in Iraq ed è possibile che una parte di queste forze non siano più indispensabili nel prossimo periodo. Ci impegneremo seriamente — naturalmente dopo l’approvazione in Parlamento — per l’addestramento di forze che possano contribuire alla stabilità e alla lotta contro il terrorismo in Sahel. Partiremo con un’operazione bilaterale con il Niger che ha un interesse specifico pure per quello che riguarda i flussi migratori verso la Libia e verso il Mediterraneo. Dietro questo impegno c’è anche quello al contrasto del traffico di esseri umani.

Il giorno dopo, la Repubblica parla più specificamente di un contingente di 470 soldati e 150 mezzi (numeri non emersi dalla conferenza stampa e provenienti evidentemente da altre fonti ben informate):

La spedizione è in preparazione da mesi ed è stata rivelata da Repubblica nello scorso maggio ma solo nelle ultime settimane sono stati definiti gli accordi diplomatici. C’è stata la richiesta formale di sostegno del governo nigerino. E soprattutto è cambiato l’atteggiamento della Francia.

Nell’articolo, firmato dal vicedirettore Gianluca Di Feo, si legge inoltre che “il testo del decreto per la missione è già stato inviato al Quirinale e nei prossimi giorni verrà sottoposto all’approvazione del Parlamento,” e che “entro l’estate il contingente affiancherà, e probabilmente sostituirà, il reparto francese che occupa il caposaldo di Madama,” l’ultima postazione della Legione straniera prima della frontiera libica.

Due giorni dopo, lo stesso Di Feo intervista la ministra della Difesa Roberta Pinotti, che conferma il ricollocamento di circa metà del contingente italiano dall’Iraq al Niger:

Il principio è che la Difesa deve intervenire su minacce che riguardano il Paese, e credo sia importante una ricollocazione delle missioni che vada a prevenire gli effetti più diretti nell’area che chiamiamo il ‘Mediterraneo allargato.’ L’operazione in Niger è frutto di questa strategia. […] Nel Sahel si sta costruendo una forza di cinque Paesi africani, sostenuta dall’Onu e dall’Unione europea, in un territorio fondamentale sia per proteggerci dal terrorismo sia per la lotta alla rete criminale che ha gestito l’immigrazione clandestina.

Ricapitolando, a metà dicembre si sa che:

  • Una nuova coalizione italo-franco-tedesca sarà operativa in Niger per affiancare la forza del G5 Sahel, costituita ufficialmente soltanto a luglio ma a quanto pare non troppo efficiente.
  • L’Italia parteciperà alla missione con un contingente di 470 uomini e 150 mezzi, almeno in parte ricollocati dall’Iraq e destinati all’addestramento delle forze locali.
  • Sembra tutto pronto a partire, manca soltanto l’approvazione del Parlamento, e l’impressione è che arriverà nel giro di giorni.
  • Non solo: la missione è in preparazione già da tempo, e in effetti la notizia era già affiorata sulla stampa nei mesi precedenti in più di un’occasione, ma senza conferme ufficiali. A questo punto diventano chiare, retrospettivamente, le mosse del governo italiano in questa direzione, a partire almeno dall’inizio del 2017.

Antefatto

Febbraio: la Farnesina nomina il nuovo ambasciatore italiano in Niger, Marco Prencipe. L’apertura della sede diplomatica di Niamey “era stata decisa in ottobre nel quadro di un rafforzamento della presenza italiana nell’area del Sahel e dell’Africa Occidentale cruciali per la gestione dei flussi migratori.”

Marzo: il governo italiano firma un accordo con quello nigerino, che prevede lo stanziamento di 50 milioni di euro (in quattro versamenti, di cui gli ultimi due previsti inizialmente per maggio e dicembre di quest’anno) vincolati al raggiungimento di una serie di obiettivi: l’istituzione di “unità speciali di controllo delle frontiere,” la costruzione e la ristrutturazione di nuovi posti di frontiera, di un nuovo centro di accoglienza e addirittura di una pista di decollo per i “rimpatri volontari assistiti.”

Maggio: il ministro Minniti incontra i suoi omologhi di Libia, Chad e Niger. L’obiettivo, ancora una volta, è spingere verso un rafforzamento dei controlli alla frontiera meridionale della Libia. Nello stesso mese, la Repubblica — sempre con la penna di Gianluca Di Feo — dà notizia di una missione militare in preparazione, l’operazione “Deserto Rosso,” composta di “almeno cinquecento uomini.” La missione avrebbe “il sostegno pieno di Berlino,” vedrebbe “un ruolo chiave di Parigi” e secondo Di Feo i ministri Minniti e de Maizière avrebbero già chiesto a Bruxelles di autorizzare la spedizione. Ma il Ministero della Difesa smentisce risolutamente: “Si sottolinea che non vi è nessuna ipotesi operativa a riguardo.”

Agosto: i capi di governo di Italia, Francia, Germania, Spagna, Niger, Chad e Libia si incontrano a Parigi e raggiungono un accordo sulla gestione dei flussi migratori che, per dirla con le parole di Macron, prevede l’attuazione di “azioni concrete a monte, nei due grandi paesi di transito, cioè Niger e Chad.” I dettagli ancora non sono decisi, ma il presidente francese specifica che il piano d’azione prevede “un’identificazione nei Paesi di transito” attraverso “una cooperazione con i Paesi africani con una presenza anche militare sul campo.” Contemporaneamente, a Roma si riuniscono di nuovo i ministri dell’Interno di Chad, Italia, Libia, Mali e Niger.

Settembre: la ministra della Difesa Pinotti firma con il proprio omologo nigerino un accordo di cooperazione militare, di cui però non vengono rivelati i dettagli. Pinotti conferma “la disponibilità italiana a supportare la formazione e l’addestramento del personale delle Forze armate nigerine.” Pochi giorni prima, un’indiscrezione pubblicata dal Fatto Quotidiano tornava a parlare della possibilità di una missione militare boots on the ground, citando questa volta come fonte un funzionario nigerino.

Ottobre: La Stampa conferma la notizia, ormai senza più nessuna reticenza. Con due mesi d’anticipo sull’annuncio ufficiale da parte di Gentiloni, sembra già che sia tutto pronto: “La direzione di marcia è chiara, manca solo la decisione finale del governo e il necessario via libera del Parlamento, ma quanto prima nascerà una nuova missione militare italo-franco-tedesca in Niger.” L’approvazione del Parlamento, ça va sans dire, è soltanto una formalità, dato che sarebbe “imminente” la partenza di un gruppo di 20 ufficiali italiani per una missione di ricognizione.

Insomma, dopo una simile trama di anticipazioni, smentite e manovre di avvicinamento di vario genere, a dicembre non c’era più molto di cui sorprendersi. Ma l’annuncio ufficiale della missione non fa troppo rumore. Qualche critica arriva da parte dei missionari attivi nella regione, come padre Mauro Armanino, missionario a Niamey, che denuncia la decisione di seguire Macron “su una strada pericolosa, violando nei fatti la sovranità del Niger e abbracciando una classe politica corrotta al soldo di Parigi.” Come altri da sinistra, Armanino vede dietro il pretesto della lotta al terrorismo soltanto l’obiettivo — su cui peraltro non si è mai fatto mistero — di bloccare il passaggio ai migranti che seguono la “rotta del deserto.”

Altre critiche puntano il dito sugli interessi strategici francesi nella regione, in particolare per gli impianti estrattivi dell’uranio, che fornisce alla Francia circa il 30% del fabbisogno di materia prima per le sue centrali nucleari. L’idea che l’Italia vada in Niger “a difendere l’uranio dei francesi,” che prende corpo nelle settimane successive, viene ridimensionata da chi fa notare come in realtà l’impegno italiano sarebbe decisamente ridotto, in un’area già enormemente militarizzata dalla presenza di forze nazionali e internazionali. Proprio per questo, a dire il vero, si capisce poco cosa potrebbe fare nel concreto un contingente che in tutto dovrebbe contare 5 mila uomini, a fronte della gran quantità di missioni già in corso nel Sahel (Barkhane, MINUSMA, EUTM, EFTS, Scudo di Ginepro, oltre alla coalizione tra Nigeria, Camerun, Chad e Niger).

Come che sia, i preparativi sembrano procedere spediti: il 24 dicembre il generale Claudio Graziano informa che è in corso a Niamey una ricognizione “per verificare le necessità e mettere a punto gli assetti della nuova missione militare.” C’è molta premura a specificare che non sarà una missione “combat”: sulla Repubblica, il solito Di Feo dice addirittura “per la prima volta” si tratterà di un intervento allo stesso tempo “umanitario” e “che va anche a tutelare gli interessi del nostro paese,” mentre per Paolo Gentiloni — che rilancia l’annuncio della missione dal ponte della nave militare Etna, salutando insieme a Pinotti i militari italiani della missione Sophia — “l’Italia lavora per sconfiggere lo schiavismo dei tempi moderni.” Secondo Di Feo, i primi uomini saranno inviati “entro la primavera,” mentre il dispiegamento totale si avrà “prima dell’estate.”

Il 27 dicembre il decreto legge sulle missioni all’estero viene dato per pronto a momenti. Viene licenziato dal Consiglio dei Ministri il giorno successivo, lo stesso dello scioglimento delle Camere e della tradizionale conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio. In quest’occasione, Gentiloni risponde così alla domanda di una giornalista di TGCOM 24:

Noi andiamo in Niger — come la ministra Pinotti aveva anticipato già nel mese di ottobre alle competenti commissioni parlamentari, preannunciando una intenzione di organizzare una missione — in seguito a una richiesta del governo nigerino che è pervenuta all’inizio del mese di dicembre al governo italiano.  La richiesta riguarda un contributo italiano a fare le cose che l’Italia fa normalmente in questi paesi — che stiamo facendo in bilaterale o in formati europei ad esempio in Libia, con la guardia costiera libica. Lavoriamo per consolidare gli assetti di controllo del territorio e delle frontiere per rafforzare, formare, addestrare le forze nazionali. Di questo che è il principale paese di transito dei flussi migratori che poi arrivano in Italia. Ho sentito qualcuno fare delle strane illazioni sui motivi di questa scelta. Francamente sono spettacolari, ma comunque ognuno ovviamente ha diritto alle illazioni più spettacolari, ma la realtà è che noi abbiamo un interesse italiano evidente nel consolidare la capacità nigerina di controllo del proprio territorio […] Una cosa molto importante del governo nigerino e del presidente Issoufou, che credo di aver incontrato una decina di volte nell’ultimo anno, anno e mezzo, è che questo è un paese pronto forse più degli altri a collaborare sul tema delle migrazioni.

Nei primissimi giorni di gennaio Angelino Alfano vola a Niamey per inaugurare ufficialmente l’ambasciata aperta poco più di un anno prima.

Il 14 gennaio i ministri Pinotti e Alfano presentano il piano del governo di fronte alle commissioni Difesa ed Esteri, confermando sostanzialmente i numeri dell’impegno (470 uomini, 130 mezzi, 2 aerei, per un totale di poco meno di 50 milioni di euro di spesa prevista). Rispondendo alle critiche delle opposizioni, Pinotti dichiara energicamente:

Questa è una missione bilaterale, non ha nulla di neocoloniale o di nascosto. Non è una missione combat, non è neppure una missione in cui pensiamo di mettere 470 [militari] come sentinelle ai confini. No, è una missione di addestramento, sulla base di una richiesta specifica fatta dal Niger, in cui ci ha chiesto — mettendoci in evidenza un problema: noi abbiamo un problema a controllare i confini. Ma non è che vogliono che li controlliamo noi. Una richiesta che sì, si sposa a quello che stiamo cercando di fare anche in supporto alla Libia […]. L’Italia e l’Europa non può continuare a far gestire l’immigrazione da reti criminali.

Incalzata dai cronisti, che le chiedono se non sarebbe stato più opportuno attendere l’insediamento del nuovo Parlamento per far votare la nuova missione, la ministra risponde che sarebbe stato “irresponsabile” non rispondere “a una richiesta specifica arrivata a novembre [Gentiloni aveva detto dicembre, ndr] dal ministro della difesa del Niger.”

M5S, Mdp e Sinistra Italiana ottengono che almeno a Montecitorio il voto passi dall’aula, contrariamente alla volontà della maggioranza “da larghe intese” che appoggia il decreto (Pd e Forza Italia), che avrebbe voluto un’approvazione in sottotraccia soltanto in commissione. Ma ottenere i voti necessari non è un problema: il 17 gennaio la Camera approva la risoluzione della maggioranza sulle missioni internazionali con il voto favorevole di Forza Italia e Fratelli d’Italia, mentre si astiene la Lega.

Per dare l’idea del tipo di testo su cui il Parlamento è chiamato a votare, basti dire che vi si trova definita “l’Africa” come “area geografica,” come se stessimo parlando di un territorio con estensione pari alla provincia di Sondrio.

Nella scheda 2, dedicata specificamente alla missione in Niger, si trova qualche dettaglio in più. I più interessanti riguardano la base giuridica di riferimento, tra cui si citano la risoluzione 2359 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (“Peace and security in Africa”), l’accordo bilaterale di cooperazione firmato con il Niger a settembre 2017 (vedi sopra) e la famosa richiesta, attribuita di non meglio specificate “Autorità nigerine,” che finalmente assume la consistenza di un numero di protocollo (3436/MDN/SG) e una data precisa: 1° novembre 2017.

Mentre le critiche da sinistra e dal mondo cattolico restano piuttosto isolate — la notizia della missione non suscita reazioni apprezzabili nell’opinione pubblica né manifestazioni di opposizione — si sprecano le analisi entusiaste dell’impegno italiano: “Verrà tutelata la sicurezza del nostro paese dal traffico dei migranti e dagli attacchi terroristici della Jihad, che qui trova una nuova frontiera,” è la sintesi del commento del nostro affezionato, Gianluca Di Feo.

Tutto bene.

Il 26 gennaio, però, Radio France Internationale pubblica le dichiarazioni di una fonte interna al governo del Niger, secondo cui le autorità di Niamey non sarebbero state “né consultate né informate.” Un’altra fonte riferisce: “Abbiamo indicato agli italiani, attraverso il nostro ministro degli affari esteri, che non siamo d’accordo.” Per l’addestramento militare, prosegue il virgolettato, “abbiamo quello che ci serve grazie agli americani, e ci coordiniamo anche con i francesi.” Le fonti non negano che vi sia un canale di dialogo aperto con l’Italia e una “coordinazione securitaria e tecnica,” ma senza che questo implichi l’accettazione di una simile missione.

Alla Farnesina la prendono bene: una fonte citata dal Corriere definisce la notizia “una patacca montata dai francesi.” La motivazione? Non aver “aderito alla richieste di Macron. I francesi volevano che andassimo in Mali, alle loro condizioni. Lo avevano chiesto a Renzi. Gentiloni ha deciso diversamente e alle nostre condizioni. Ed evidentemente cercano in qualche modo di ostacolare la nostra autonomia.”

Ma che fine ha fatto allora l’intesa italo-franco-tedesca suggellata il 13 dicembre a Celle Saint-Cloud, quando la missione è stata annunciata ufficialmente per la prima volta? E perché queste contrarietà non sono emerse già a dicembre? È possibile che il governo di Niamey non abbia un abbonamento a Repubblica, ma quando Alfano è andato a inaugurare l’ambasciata il 3 gennaio, che cosa si sono detti? E Gentiloni, che avrebbe incontrato il presidente nigerino Issoufou “una decina di volte nell’ultimo anno e mezzo”? Per non parlare dell’accordo di cooperazione militare siglato a fine settembre — il cui contenuto, però, non è noto.

Per ribattere alle indiscrezioni pubblicate da RFI, la Farnesina — sempre attraverso le fonti anonime del Corriere, dato che nessun comunicato stampa ufficiale viene rilasciato — rilancia la storia della richiesta ufficiale del Niger, ma con una novità: le lettere diventano due, una — già nota — del 1° novembre 2017, e una seconda del 15 gennaio 2018, non presa in considerazione nel testo votato dal Parlamento. Nessuna delle due, in ogni caso, viene pubblicata.

In poco più di una settimana, la fermezza del governo vacilla: il 6 febbraio, parlando alla seconda edizione della conferenza ministeriale “A Shared Responsibility for a Common Goal – Solidarity and Security” — a cui partecipano a Roma diversi paesi europei e africani, inclusi Francia e Niger — il ministro Alfano sottolinea, come se nulla fosse successo, “l’importanza strategica delle relazioni con il Niger”:

Quest’anno non solo abbiamo aperto la nostra ambasciata a Niamey, ma l’abbiamo anche resa pienamente operativa. Tra le risorse della cooperazione e quelle del Fondo Africa negli ultimi dodici mesi abbiamo destinato al Niger più di cento milioni di euro per costruire un partenariato a tutto campo, ed io personalmente ho visto cinque volte in un anno il collega ministro degli esteri del Niger.

Ma poi, rispondendo a una domanda sulla missione, smentisce di fatto la linea mantenuta finora — quella delle due richieste ufficiali già pervenute — dichiarando che

Il dispiegarsi della missione non può che avvenire su richiesta delle autorità nigerine e su base del loro consenso. Nel momento in cui avremo l’autorizzazione di Niamey, ci gioveremo di questa autorizzazione per fare ogni azione che sia richiesta dal governo nigerino che rispetti profondamente la sovranità nigerina e che sia da effettuare su base di consenso con il governo nigerino.

Dal resto del governo tutto tace. Il 23 febbraio si tiene a Bruxelles un vertice sul Sahel, a cui partecipa il presidente del Consiglio Gentiloni, in cui i rappresentanti di circa 50 Paesi donatori confermano i propri stanziamenti economici a favore della regione: l’Unione europea conferma 50 milioni aggiuntivi (probabilmente quelli di cui già si sapeva a dicembre), mentre i giornali rendono conto di un “dialogo” in corso per spingere Niamey a dare il via libera alla missione. Contrariamente alle voci di uno scontro tra Roma e Parigi, sarebbe la Francia a “chiedere un maggiore coinvolgimento dei partner europei nella stabilizzazione dell’area del Sahel.” In generale, sembra che la linea ufficiale sia fare finta che le fonti governative citate un mese prima da RFI — e mai smentite — non abbiano mai detto nulla. Il 25 febbraio, Gerardo Pelosi scrive tranquillamente sul Sole 24 Ore:

Si ha la sensazione che anche se da parte italiana tutto è pronto per l’invio già nel prossimo giugno di una parte dei militari, sia il Governo del Niger che quello francese stiano aspettando la ‘chiamata’ del governo nigerino ma anche forse l’esito delle elezioni italiane per decidere i tempi. [grassetto mio]

Insomma: le lettere di richiesta sono scomparse e il governo del Niger sta aspettando una chiamata da se stesso.

Ma il governo del Niger, una decina di giorni più tardi, ribadisce il concetto: il ministro dell’Interno nigerino Mohamed Bazoum, intervistato da Rainews24, definisce “inconcepibile” la missione militare italiana e ribadisce di aver appreso la notizia soltanto dai media, perché “non era qualcosa di cui avevamo parlato con le autorità italiane.”

Non siamo nello stato d’animo di poter prendere oggi delle decisioni su relazioni di questo genere con altri partner, come l’Italia [oltre a Francia e Stati Uniti, ndr]. Se dobbiamo avere una relazione di tipo militare con l’Italia sarebbe nel quadro di una missione di esperti che consenta di rafforzare le capacità del nostro esercito, e quindi non sarebbe qualcosa che si traduca in una presenza fisica di militari italiani con una vocazione di tipo davvero operativo. Mi sembra difficile che possiamo esprimere un bisogno di soldati italiani nell’ordine di 400, come è stato annunciato dai media.

A questo punto non è più possibile parlare di “patacca” confezionata dai francesi. Tra gli alti gradi dell’esercito si tende comunque ad escludere che la figuraccia diplomatica sia responsabilità italiana: alcuni, come il generale Mario Arpino, pensano che ci sia dietro l’ingerenza francese; altri invece pensano piuttosto a problemi di politica interna nigerina. Dalla Farnesina e dalla Difesa — vuoi anche per le condizioni generali di precarietà dettate dalla situazione post-elettorale — non arriva nessuna comunicazione ufficiale. Solo non meglio specificate “fonti del governo,” che però, citate sempre da Rainews, riferiscono che “la preparazione della missione militare in Niger prosegue come previsto, in base agli accordi bilaterali, e al momento non c’è stata alcuna comunicazione di un ripensamento.”

Sul posto sono già presenti una quarantina di militari italiani, un nucleo di ricognizione e collegamento, che da tempo hanno preso contatto con le autorità locali e stanno preparando il terreno alla missione. Il primo modulo addestrativo di un centinaio di uomini è previsto che raggiunga il Niger a giugno: noi siamo pronti ma, per schierare i militari sul campo, aspettiamo ovviamente il via libera del governo nigerino.

Alle “fonti” governative e agli editor di Rainews sfugge evidentemente il principio di non contraddizione: è tutto pronto, la missione non si ferma, stiamo agendo sulla base delle richieste avanzate dalle autorità di governo di Niamey, ma aspettiamo il via libera del governo stesso.

Tre giorni più tardi, lo stesso ministro Bazoum conferma a RFI che “non è concepibile” la presenza stabile di truppe italiane in Niger, ma si può ragionare sulla presenza di “istruttori italiani, personale militare esperto in questo o quel settore, per rafforzare le capacità delle nostre forze di difesa e di sicurezza.” A questo punto si infittisce il mistero delle lettere scritte dal ministro della difesa nigerino Kalla Moutari al governo italiano: secondo Bazoum, proprio non esistono. Ma in calce all’articolo di RFI una precisazione ufficiale del Niger recita così:

Il ministro della Difesa del Niger ha scritto al suo omologo italiano, su proposta di quest’ultimo, una lettera per indicargli i bisogni del Niger per la zona militare del Nord. È stata mandata una seconda lettera per rilanciare la prima. In nessuna di queste due lettere si fa menzione di personale militare o di supervisione. [grassetto mio]

Dal che si ricava che di sicuro c’è un problema di comunicazione all’interno del governo nigerino, ma che forse il governo italiano ha interpretato in maniera troppo estensiva il contenuto delle due lettere, di cui peraltro avrebbe sollecitato l’invio.

Il 15 marzo, durante una conferenza stampa alla Farnesina, Alfano ammorbidisce ulteriormente le posizioni: il progetto di missione “è al vaglio delle autorità nigerine, il cui consenso è necessario per qualsiasi ulteriore sviluppo e decisione.”

Il terzo stop, forse definitivo, è arrivato il 6 aprile, questa volta direttamente dal primo ministro Mahamadou Issoufou, che chiede — come riporta Fiorenza Sarzanini sul Corriere — “un rallentamento nelle procedure di invio del contingente.” Che fare quindi dei 40 militari già inviati con compiti di ricognizione? Lo stato maggiore della Difesa smentisce con un comunicato ufficiale l’ipotesi di un ritiro, e ribadisce nuovamente che “stanno proseguendo le attività programmate del nucleo di ricognizione per attività di collegamento e preparazione, di intesa con le autorità nigerine, e di predisposizione all’approntamento della base italiana in Niger. […] La missione si svilupperà in pieno accordo con le Autorità locali.”

Certo, le ultime notizie relative allo stato di questi 40 militari non sono rassicuranti: secondo quanto riportato il 15 marzo da Panorama, i soldati italiani sarebbero sostanzialmente bloccati in una base statunitense: “Da mesi siamo accampati in una base americana, sprovvisti di armi e senza aver ottenuto reciprocità dall’esercito nigerino, che si è persino rifiutato di concederci il terreno per costruire l’annunciato campo base.” Tutto bene insomma.

Cosa può essere andato storto

Mentre l’ipotesi di un “sabotaggio” francese resta sempre molto gettonata, sembra più verosimile che l’impasse sia dovuta a seri problemi di politica interna nigerina. Da mesi il paese è stato teatro di numerose manifestazioni di protesta contro la legge finanziaria 2018 — considerata “antisociale” — e contro la presenza dei contingenti militari stranieri. Alle proteste il governo ha reagito con un’ondata di repressione, che non ha risparmiato giornalisti e associazioni umanitarie. È probabile quindi che, di fronte alla prospettiva di un’escalation incontrollabile del malcontento, il governo abbia voluto frenare su concessioni precedentemente accordate. Altri hanno fatto notare come il traffico di esseri umani sia una componente ancora fondamentale nell’economia del Sahel, e che quindi una missione militare esplicitamente rivolta a chiudere il confine con la Libia avrebbe rischiato di introdurre un ulteriore elemento di instabilità.

Restano comunque diversi punti da chiarire:

  • Perché tutta questa fretta di approvare la missione se davvero — come ha sostenuto da ultimo il Niger — nelle due famose lettere non c’erano indicazioni specifiche sul numero di uomini da impiegare? E, se così non è, perché il governo non pubblica semplicemente le due lettere, o il contenuto dell’accordo firmato a fine settembre? Conviene ricordare che le indiscrezioni sulla missione militare circolavano ben prima che le due lettere fossero inviate (già a maggio e poi a ottobre 2017).
  • Cosa succederà ora? Perché il governo italiano insiste nel negare che la missione sia in una situazione di stallo de facto, e insiste nel proseguire nonostante le ripetute manifestazioni di contrarietà da parte del governo nigerino?

In copertina: Angelino Alfano e Roberta Pinotti a Palazzo Chigi nel 2014, via Flickr.

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