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La corsa è ancora lunga, manca più di un mese, e prima della premiazione molto può succedere, ma osservando il quadro complessivo non può sfuggire un deciso e insolito interesse del pubblico americano per la pellicola di Guadagnino.

Senza troppi giri di parole: Chiamami con il tuo nome vincerà l’Oscar come miglior film. Per quanto la notte dell’Academy sia, come quasi tutti i festival del cinema, imprevedibile nei suoi risultati, questa volta con un po’ di sfrontatezza consegnamo in anticipo la statuetta dorata a Luca Guadagnino e ai produttori del film.

Non manca certo la competizione in questa edizione degli Oscar. Favoritissimi per la categoria più ambita sono anche lo splendido Lady Bird (ancora inedito in Italia) diretto da Greta Gerwig e La forma dell’acqua di Del Toro, con ben 13 nomination e un Leone d’Oro a Venezia, in coda anche Get Out del comico-ora-regista Jordan Peele. Tutti ottimi film con ottime recensioni e ottimi botteghini, nulla insomma che faccia breccia tra le previsioni per la sera del 4 marzo.

Ma proviamo ad analizzare meglio le condizioni in cui si muove il film di Guadagnino.

Il sistema per le nomine e il conteggio dei voti agli Oscar è molto più complicato rispetto alle più abituali giurie dei festival di cinema europei — proprio questa complessità però può permettere, con la giusta costruzione mediatica e un mirato lavoro di pubbliche relazioni, a film meno quotati di vincere la statuetta per miglior film. Un esempio? L’anno scorso, confusione a parte, una piccola produzione come Moonlight (1.5 milioni di dollari, la più bassa dai tempi di Rocky per un vincitore) è riuscita a battere il favoritissimo La La Land.

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È ormai noto al pubblico più cinefilo che il sistema di voto dell’Academy favorisce le seconde scelte — semplificando: mentre le prime scelte si annullano tra di loro, i voti per le seconde scelte si accumulano fino ad ottenere un vincitore che rispecchia nel modo più omogeneo i pareri dei giudici. In questo modo non prevale – su circa 6,000 membri dell’Academy – il parere di uno sparuto gruppo di giudici, ma vince la pellicola a cui tutti, più o meno, hanno dato un giudizio positivo.

La corsa è ancora lunga, manca più di un mese, e prima della premiazione molto può succedere, ma osservando il quadro complessivo non può sfuggire un deciso e insolito interesse del pubblico americano per la pellicola di Guadagnino.

Uscito nelle sale americane il 24 novembre, Call me by your name ha da subito accumulato recensioni entusiaste, confermando il successo che il film aveva ottenuto al Sundance Film Festival, dove era stato presentato in anteprima. Già la scelta per la data di distribuzione americana ci suggerisce che la Sony Pictures – la casa di distribuzione – mirasse alla scalata agli Oscar. Anche Moonlight, guarda caso, era stato distribuito a fine ottobre.

Questa scelta, che sfrutta l’esposizione mediatica del film, pone già in una buona luce il film, che più di tutto ha bisogno di far parlare di sè. A questo si aggiunge un’uscita su suolo nazionale in ritardo rispetto a quella americana (esce oggi nelle sale italiane), il che però potrebbe aiutare Chiamami con il tuo nome a cavalcare l’onda lunga di quello che in inglese si definisce buzz, il ronzio mediatico su un argomento.

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Alle giuste tempistiche si aggiunge, ovviamente, la qualità del film, in cui gli aspetti sensoriali e intimi superano le barriere di genere, rendendola una storia in grado di parlare a tutti i tipi di pubblico. “È più un terrario dell’esperienza umana, un’immersione sensoriale che è straordinariamente piena nella sua visione” scrive Richard Lawson su Vanity Fair — “Mr Guadagnino è un maestro nel toccare tutti e cinque i sensi, che è uno dei motivi per cui i critici hanno accolto cosi calorosamente il film” aggiunge cara Buckley sul New York Times.

Il più grosso ostacolo per Call me by your name è la replica. Le voci di corridoio più spietate ad Hollywood già suggeriscono che l’Academy non darà mai il suo premio più prestigioso a storie con protagonisti omosessuali per due anni di seguito — dimenticando che la stessa Accademy, negli anni Novanta, è riusicta a premiare per tre anni di seguito commedie romantiche di dubbio gusto: The English Patient, Titanic e Shakespeare in Love.

Un ultimo, e credibile, elemento a favore della corsa dell’opera è la mano che ha scritto la sceneggiatura: James Ivory. Il regista e sceneggiatore, che ha adattato il romanzo omonimo di André Aciman, doveva inizialmente co-dirigere il film, poi affidato a Guadagnino. I film di Ivory sono stati più volte nominati agli Oscar, vincendone in totale sei — il suo nome dunque non è per niente sconosciuto negli ambienti di Hollywood.

A livello statistico, il vincitore più probabile è Guillermo del toro con il suo The shape of water e i premi accumulati durante gli appuntamenti pre-Oscar – mentre qui in Italia la percezione è ovviamente distorta dal fatto che a calcare la scena è un nostro connazionale, ma questo non deve privare il film del suo valore e soprattutto della reale possibilità che ha di vincere la statuetta d’oro. Il bello del cinema è proprio la sua imprevedibilità e quello che può lasciare nell’animo di ognuno di noi.