cover

Cresciuto con il neorealismo di De Sica, il realismo magico di Fellini e le avanguardie della Nouvelle Vague, Jia Zhangke ha raccontato una Cina mai vista su grande schermo, fatta di individui e non di macchie indistinte, di storie e non di cronaca.

“Beijing ha 20 milioni di persone che fingono di vivere” è il titolo di un saggio pubblicato questa estate sul portale WeChat da un utente misterioso chiamato Zhang Wumao. Il testo – fatto eliminare dal governo ma reperibile da altre fonti – si scaglia contro le condizioni di vita estreme in una capitale che dovrebbe invece rappresentare la potenza economica e sociale del paese: inquinamento, ritmi estenuanti, una forbice sociale sempre più ampia fra vecchi abitanti e nuovi abitanti, o migranti. “Beijing è un tumore e nessuno può controllare la sua crescita” scrive Zhang Guochen, vero nome dell’autore, costretto pochi giorni dopo la pubblicazione alle scuse ufficiali per l’“imprecisione” del testo.

La vicenda di Guochen è solo l’ultimo esempio di una lunga serie di limiti imposti dalla Cina alla libera espressione, soprattutto quando si tratta di aprire un dialogo sulle condizioni di vita dei propri cittadini. Per quanto la Cina ci possa sembrare sempre più vicina grazie a un’apertura economica verso l’occidente, la sua quotidianità rimane ancora barricata dietro a una muraglia culturale e politica. Dietro a questa muraglia però si agitano con lo stesso vigore e la stessa fragilità le vite di più di un miliardo di persone, un numero così ampio da non riuscire spesso a rapportarlo alle nostre individualità.

Uno dei registi cinesi che negli ultimi anni ha raccontato con estrema lucidità i cambiamenti in atto all’interno del paese è Jia Zhangke, appartenente alla cosiddetta sesta generazione, ovvero la generazione di cineasti cresciuti negli anni Novanta e che attraverso i loro film hanno raccontato le contraddizioni della società cinese contemporanea — il passaggio alle logiche di mercato e di consumo e le realtà urbane e industriali nate nella Cina di oggi.

Cresciuto con il neorealismo di De Sica, il realismo magico di Fellini e le avanguardie della Nouvelle Vague, Jia Zhangke ha raccontato una Cina mai vista su grande schermo, fatta di individui e non di macchie indistinte, di storie e non di cronaca. Nel 2006 vince il Leone d’oro alla 63° Mostra del Cinema di Venezia con Still Life, la storia di due persone alla ricerca dei propri parenti nella città di Fengjie, tristemente famosa per la costruzione della diga che ha causato l’allagamento di 13 città e lo sfollamento di più di un milione di abitanti. Con Still Life Zhangke accede definitivamente nel circuito cinematografico internazionale, riuscendo a convincere le autorità cinesi a proiettare il film in patria, ma è con Il tocco del peccato, del 2013, che il regista raggiunge l’apice narrativo ed espressivo. 

immagine-1
Immagine tratta dal quarto capitolo, basato sui suicidi della Foxconn

Quattro storie, quattro personaggi, quattro zone del paese. Il film viene costruito intorno a fatti realmente accaduti o spunti che il regista ha tratto da Weibo, uno dei social network più usati in Cina. “L’impatto più grande è che se succede qualcosa, non importa dove, può essere visto subito dalle persone. Anche la percezione che ho della realtà cinese è cambiato, ora posso vedere queste cose accadere in tutto il paese su Weibo. Diversi tipi di cose, non solo quelle nel film. Ci sono buone storie e ci sono cattive storie. Ma per ciò che riguarda il mio lavoro, ho cominciato lentamente a percepire sempre di più il problema della violenza individuale nella società,” afferma Zhangke in un’intervista sul film.

Ed è proprio la violenza al centro del film: sporca sì, ma spesso giusta e giustificata, unica valvola di sfogo per gli oppressi e per coloro che vengono privati della propria dignità da una rivoluzione che con il passare degli anni ha messo la ricchezza sempre di più nelle mani di una minoranza. Guardare i film di Zhangke – e in particolare Il tocco del peccato – vuol dire confrontarsi con una realtà a noi estranea e comprenderla dal punto di vista di quel miliardo di persone che ogni giorno lavorano e lottano per avere quello che abbiamo noi. Il fatto che i protagonisti, e le situazioni in cui si trovano, siano molto lontani fra loro ma rimangano uniti da una violenza comune sono il segno più evidente della coraggiosa scelta registica di Zhangke: “Oggi in Cina questi eventi si verificano sempre più spesso, non sono più eventi rari. Ci sono profonde ragioni sociali per cui si verificano e usare storie multiple ci aiuta a dire alle persone che questa non è necessariamente un’eccezione, né è una storia isolata ed estrema. Questi tipi di storie avvengono in Cina di continuo.”

Non è una visione facile, ma è una visione necessaria per comprendere un paese la cui economia sta per dominare il resto del mondo.immagine-2Oltre alla violenza, Zhangke affronta un altro elemento importante della moderna Cina: la mobilità. Non a caso il film ambienta le quattro storie in quattro regioni diverse: lo Shanxi, a nord, in Chongqing, nel sud-ovest, nel Hubei, centro, e nel Dongguan, nel sud. La mobilità è diventata sinonimo di opportunità per gran parte dei cinesi disposti a spostarsi dal proprio luogo di nascita alla ricerca di un futuro migliore. Spesso però la scelta di spostarsi si rivela una falsa speranza come evidenziato dal saggio su Beijing e i suoi nuovi abitanti.

Solo per il capodanno, unica vera festività per la maggior parte dei cinesi, si calcola uno spostamento di quasi 200 milioni di persone (di cui la maggior parte migrant workers), disposte a viaggiare migliaia di chilometri per trascorrere pochi giorni insieme ai propri familiari. Questa mobilitazione di massa, a volte spontanea a volte forzata, rischia di creare degli strappi all’interno della società e il  risultato non è altro che l’accumulo di eventi violenti e repressi all’interno della quotidianità.

immagine-3
Scena tratta dal primo capitolo del film

Il film di Zhangke parla prima di tutto ai cinesi, lo fa affrontando temi che non sono discussi abbastanza nelle sedi di dibattito istituzionali come stampa e media, e proprio per questo motivo devono essere affrontati dall’arteAd azioni repressive come la chiusura da parte delle autorità del Beijing independent film festival nel 2014, gli artisti cinesi stanno rispondendo con altrettanta forza, con opere sempre più politiche e illuminanti sullo stato della società cinese. Esempi come “Angels Wear White” della regista Vivian Qu e “Have a Nice Day” di Liu Jian seguono le riflessioni di Zhangke, ampliandone il discorso attraverso diverse storie e nuove forme — dimostrando al mondo la volontà di abbattere la muraglia culturale che tiene prigionieri per primi gli stessi cinesi. 

Per chi vuole comprendere meglio un paese così articolato e complesso come la Cina – apparsa all’improvviso nel mezzo del dibattito mondiale dopo anni di volontario esilio – Il tocco del peccato è un ottimo primo passo in quanto racconto corale e realistico della sua società.


Segui Jacopo su Twitter