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Siamo in grado di modificare il DNA già da quasi 50 anni, ma il genome editing ci permette di farlo meglio e più velocemente, e per questo potrebbe dare il via a una vera e propria rivoluzione.

Chiedete a un professore universitario o a un ricercatore un pronostico sui prossimi premi Nobel per la medicina: risponderanno quasi tutti che sarà assegnato per il genome editing, la nuova rivoluzionaria tecnica di modificazione del DNA che negli ultimi anni è entrata prepotentemente al centro del dibattito scientifico. Siamo in grado di modificare il DNA già da quasi 50 anni, ma il genome editing ci permette di farlo meglio e più velocemente, e per questo potrebbe dare il via a una vera e propria rivoluzione.

Senza scendere troppo nei dettagli, la tecnica si basa su un sistema di difesa dei batteri nei confronti delle infezioni da parte dei virus, che avviene tramite la memorizzazione da parte del batterio di una piccola sequenza di DNA virale. Questo permette poi, in caso di una seconda infezione dello stesso virus, di riconoscere la sequenza nel suo genoma e andare a tagliarla, fermandone quindi la proliferazione.  Nel genome editing al posto della sequenza virale viene fornita alla proteina batterica che si occupa di tutto ciò — chiamata Cas9 — la sequenza di DNA che si vuole modificare nel genoma cellulare, in modo che diventi il bersaglio del taglio.

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In questo modo però non si ottiene una mutazione, ma un semplice danno del DNA. Per ottenere la modificazione desiderata si sfrutta quindi un sistema di riparazione presente normalmente nelle cellule, chiamato homology directed repair. Dato che ogni gene è presente in due copie all’interno del genoma, quando una delle due è danneggiata la cellula può recuperare l’informazione dall’omologa per eseguire la riparazione. Gli scienziati hanno perciò pensato di fornire alla cellula la copia del gene da sfruttare come stampo per riparare il danno indotto con il genome editing, ma questa contiene al suo interno la mutazione che si vuole inserire nel genoma cellulare.

È importante capire il meccanismo attraverso cui agisce il genome editing perché rispetto alle tecniche tradizionali di modificazione del DNA presenta una caratteristica che la rende diversa anche dal punto di vista giuridico: nel genoma della cellula non viene inserita nessuna molecola di DNA prodotta esternamente, ma il gene mutato viene sintetizzato dalla cellula stessa, dal suo interno.

Questa piccola ma fondamentale differenza — che a onor del vero non appartiene solo a questa tecnica ma anche ad altre, un po’ meno efficaci, che vengono incluse nella categoria genome editing — la pone sul confine tra le tecniche di modificazione genetica con cui si ottengono gli OGM e le normali tecniche di mutagenesi con cui da sempre si ottengono le nuove varietà. La legislazione europea infatti non classifica gli OGM sulla base del prodotto in quanto tale, ma sul processo attraverso cui viene ottenuto, e questo la rende inadatta ad interpretare le novità tecnologiche.

Il genome editing non lascia tracce del suo passaggio, per cui potrebbe essere impossibile capire come è stata prodotta una nuova varietà dalla sola analisi del DNA.

Ciò potrebbe aiutare gli OGM stessi ad uscire dall’emarginazione in cui spesso sono confinati, a causa di un’etichettatura che non tiene assolutamente in conto il prodotto, e quindi le sue reali caratteristiche, sia positive che eventualmente negative. Il genome editing, non essendo rintracciabile, impone infatti una valutazione esclusivamente sul prodotto finale. Non bisogna essere però troppo ottimisti, dato che la guerra agli OGM ottiene sempre larghi consensi tra la popolazione. Potremmo perciò vedere al contrario un riadattamento della legislazione, per far sì che ricada al suo interno anche il genome editing, in un modo o nell’altro — — nonostante sentenze importanti in senso opposto, come quella recente della Corte di giustizia europea contro l’Italia sugli ostacoli alle coltivazioni OGM.

L’aspetto più controverso legato a questa nuova tecnica è però un altro, ovvero la possibilità di applicarla direttamente sull’uomo, e in particolare sugli embrioni. Questa idea, terrificante per molti, che evoca futuri distopici di controllo di massa, è in realtà un’arma potentissima nella lotta alle malattie genetiche ereditarie. Gli strumenti che abbiamo non sono ancora onnipotenti, non ci consentono di manipolare tratti complessi e multifattoriali come il carattere, l’intelligenza o anche la maggior parte delle caratteristiche fisiche, ma sono sufficienti per rimuovere errori piccoli e singoli presenti in alcuni geni, e che sono responsabili di malattie come la fibrosi cistica, o anche la sindrome di Down, intervenendo sull’embrione nelle primissime fasi del suo sviluppo.

Le potenzialità in campo medico sono però ancora più vaste, in quanto si può pensare di utilizzare il genome editing su organismi adulti per agire direttamente sui geni che sono alterati nel cancro, e fermarne quindi la crescita dalla base, oppure per attaccare virus come HIV, che inseriscono il proprio DNA all’interno di quello delle cellule umane. Potenzialità da esplorare con la stessa cautela con cui gli scienziati agirono negli anni ’70, all’epoca dei primi passi dell’ingegneria genetica — ma le prime pionieristiche ricerche sono state già condotte, anche su embrioni umani.


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