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Qual è l’ordine delle cose? Per il governo italiano chiudere il rubinetto che travasa fiumi di migranti sulle coste del paese. Per la milizia libica mantenere il potere, lasciando all’Europa incontri e meetings.

Queste sono certezze che, nel contesto mediatico attuale, lo spettatore non ha bisogno di imparare e Segre non ha bisogno di raccontare più del dovuto, quello che invece il regista – e con lui lo sceneggiatore Marco Pettenello – prova a individuare e descrivere è la responsabilità delle persone che mantengono e spesso definiscono tale ordine.

Corrado Rinaldi è un poliziotto con un passato da schermidore olimpionico, piega diligentemente le camicie e i pantaloni sui letti degli alberghi in cui spesso è costretto, ama sua moglie e i suoi due figli, esegue gli ordini e raccoglie sabbia dalle spiagge libiche per la propria collezione. In questa vita ordinata e ordinaria, Rinaldi è un bravo figlio di puttana, come spesso viene definito, per ciò viene incaricato di negoziare con i libici il blocco dei flussi migratori che attraversano il Mediterraneo fino in Italia.

Andrea Segre ha cominciato la lavorazione di L’Ordine delle Cose tre anni fa, quando lo scandalo sull’accordo tra Italia e milizie non era ancora sotto gli occhi di tutti, eppure i segnali c’erano.“Per molti mesi ho incontrato insieme a Marco Pettenello alcuni ‘veri Corrado’ e parlando con loro ho intuito che l’Italia si apprestava ad avviare respingimenti di migranti nei centri di detenzione libica,” spiega Segre nella nota di regia al film. Ancora oggi – con la verità tra le mani e l’orrore sotto gli occhi – l’Italia continua a non agire, o ad agire per l’immobilità, rispettando così l’ordine delle cose.

È proprio questo ordine a rendere freddo e indifferente Rinaldi – interpretato da un ottimo Paolo Pierobon, già poliziotto dei servizi segreti su piccolo schermo – burocrate più che poliziotto, impegnato a soddisfare le richieste del Ministero all’interno di un gioco di poteri tra Stati. Sarà però un breve incontro con Swada, giovane somala bloccata nel centro di detenzione libico, a far crollare l’ordine morale di Rinaldi e cambiare le cose in persone, i numeri in storie.

A questo punto subentra una scelta registica importante: se nell’ordine delle cose i migranti non hanno voce, saranno gli schermi dei portatili e dei cellulari, delle memorie esterne e dei computer della capitaneria a mediare il racconto. Se oggi il tessuto del reale passa dal web e dai social network, perché non mostrare come anche chi ci sembra così diverso da noi culturalmente possiede gli stessi istinti sociali che spingono a pubblicare un video su Facebook. Così lo spettatore scrolla la bacheca di Swada insieme a Rinaldi, e attraverso questo strumento così impersonale il poliziotto riscopre invece (e noi con lui) un senso di umanità che neanche un dipinto nei musei vaticani riesce a dargli — altro spunto su cui Segre ci chiede di riflettere.


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Oggi Corrado Rinaldi rappresenta purtroppo una grossa fetta del nostro paese. Il suo conflitto interiore tra l’ordine da mantenere in casa propria per salvaguardare il bene più prezioso (la famiglia) e il salvare vite umane al di fuori dei propri confini territoriali e morali è lo specchio di un dibattito pubblico che affligge anche la politica e la società italiana.

L’ordine delle cose del poliziotto Rinaldi, e quello dei suoi superiori, rischia di diventare la quotidianità — a questo proposito Segre ci invita a riflettere su due elementi: il singolo da solo non avrai mai la forza di ribaltare l’ordine delle cose, la libertà poggia invece nelle mani di una collettività che ha sconfitto il cancro fascista (che nel film non è rappresentato, ma di cui si vede la lunga ombra) e razzista e che su quella vittoria può riscrivere l’ordine delle cose.

In questo senso L’ordine delle cose è un film che non dà speranza perché rappresentazione di un presente fallito, suggerendo però un futuro che (forse) siamo ancora in grado di cambiare.