mosul bomb

M. K. è uno studente siriano.

Per ragioni di sicurezza, ci ha chiesto di rimanere anonimo.


Mentre l’esercito iracheno, sostenuto dalle milizie, annuncia che Mosul — una volta la capitale dello Stato Islamico — è una città libera, è legittimo chiedersi che futuro possa emergere, tra le macerie, dopo la sconfitta di ISIS.

Se volessimo dare un nome alla corrente di pensiero potremmo chiamarla, in qualche modo, il post-daeshismo.

Questo pensiero — questa fantasticheria — non è certamente nelle menti di chi in questo momento sta combattendo Daesh sul campo. Per quanto gli riguarda, l’unico modo per sconfiggerli, è farlo militarmente. Daesh deve essere terminato, fisicamente, e questo è quanto. Ma domande riguardo il futuro dell’ISIS, dal contesto socio-economico che è diventato terreno fertile perché crescesse, alle motivazioni politiche che hanno spinto alla nascita dell’idea stessa dell’ISIS fino all’annuncio della nascita del califfato sono state sommariamente ignorate proprio dalle parti che più attivamente — ed efficientemente — stanno combattendo sul campo. Basta guardare alla natura inerentemente settaria delle milizie che combattono contro Daesh in Iraq per capire che inevitabilmente, ISIS tornerà.

Perché rappresenta semplicemente il più radicale e violento paradigma politico dell’Islam: non casca dal cielo, ma è quasi un risultato naturale di pratiche — queste forzate e forzose — che sono avvenute in così tanti paesi Arabi, e nel caso specifico qui, in Iraq.

È appropriato e razionale porsi un’altra domanda, parallela, sulle circostanze e sui fattori che i regimi politici in Iraq hanno cresciuto sotto il loro sguardo distratto.

Ora, è ovvio che nell’evoluzione di Daesh siano coinvolti elementi oggettivi quanti snodi che possono essere analizzati solo soggettivamente. In senso lato, il contesto storico del decadimento della civiltà islamica, ad esempio, e il conseguente fallimento nel comprendere e adattare l’Islam alla contemporaneità sono cause oggettive e cruciali che spiegano il fenomeno della radicalizzazione islamista in generale. Ma stiamo parlando di un dominio completamente diverso e così vasto, che non possiamo analizzare in maniera soddisfacente in queste poche righe.

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Credo sia importante, tuttavia, concentrarsi sulle altre circostanze che hanno portato alla crescita di un’organizzazione così violenta e brutale. Cerchiamo allora di ricostruire una cronologia di eventi sin dal crollo del regime di Saddam Hussein in Iraq dopo l’invasione statunitense del 2003.

Il 23 maggio 2003, l’amministratore temporaneo per la coalizione in Iraq annunciò l’ordine “numero due,” ovvero lo scioglimento dell’esercito iracheno, una legge che avrebbe lasciato 400 mila soldati senza lavoro. In seguito fu emanato un altro ordine — noto come la “De–Bathificazione” — che costringeva tutti i membri del partito Al–Baath, il partito di Saddam Hussein, a dimettersi da tutte le posizioni del settore pubblico e che ne impediva ogni futuro impiego. Durante questo periodo, la resistenza irachena controllo le truppe statunitensi era in ascesa, e nel 2004 fu annunciata la fondazione della Stato islamico in Iraq, portando nelle file del movimento tantissimi soldati ora disoccupati ed ex membri del partito Al–Baath.

Due importanti punti da analizzare prima di proseguire. Per prima cosa, le tribù di arabi sunniti hanno resistito allo Stato islamico fin dalla fine del 2008 e formando un’alleanza nota come Sahawat furono in grado sconfiggere Daesh e costringerlo ad abbandonare quelle regioni. Il secondo punto riguarda il regime di Saddam Hussein. Il regime di Hussein per più di trent’anni aveva operato una funzione che consideravamo di secolarizzazione, ma non appena è crollato tutti i gruppi settari presenti in Iraq ritornarono immediatamente alle loro identità, appunto, settarie — dimostrando una volta per tutte che il secolarismo non democratico di Saddam Hussein non aveva in nessun modo fatto le radici nella società irachena, ma al contrario, aveva peggiorato le cose.

Questo fenomeno è stato rappresentato perfettamente dall’autore franco-libanese Amin Malouf in una metafora dove la dittatura di Saddam Hussein è  una mina caricata di tensione settaria.

Motivate dalla Primavera araba, manifestazioni scoppiarono inizialmente nel 2013 nella regione di Anbar. Chi manifestava lamentava la mancanza di servizi e assistenza che dovevano essere garantiti dal governo di Baghdad. Nouri Al Maliki, l’allora Primo ministro, fermò le manifestazioni e si rifiutò di ascoltare le richieste dei residenze, assumendo quello che può essere descritto soltanto come un atteggiamento settario. L’intera situazione continuò a esacerbare la polarizzazione, creando un ambiente perfetto per la nascita e lo sviluppo di Daesh.

Recentemente tribù di arabi sunniti si sono unite alle forze irachene nella battaglia contro l’Isis, ma senza nascondere il timore di essere ancora vittima di marginalizzazione nel prossimo futuro.

È impossibile insomma scartare l’ipotesi di una continua crescita di Daesh, verso nuove forme ancora più brutali, se queste tensioni non saranno risolte. Questo malessere è puramente causato dalla mancanza di diritti, di giustizia, di sviluppo e libertà, a prescindere da religione e etnia: in caso contrario, ci saranno sempre gruppi che preferiranno retrocedere in affiliazioni minoritarie, che li fanno sentire più sicuri, in assenza di una vera identità patriottica universale.