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Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram. Questa settimana Hirene Tondelli ci racconta la comunità cattolica di Nomadelfia, una frazione del Comune di Grosseto, fondata da Zeno Saltini e costruita su quello che è diventato l’ex campo di concentramento di Fossoli, a partire dal 1947.


Cosa è Nomadelfia?

Un’utopia resa reale. Zeno Saltini (il fondatore ndr) aveva un sogno, una comunità basata sulla fratellanza, egualitaria,  senza nessuno che avesse di più, e chi di meno. Lo disse lui stesso: “Per tutta la vita non voglio più essere né servo né padrone.” Gli costò caro: dovette lasciare il sacerdozio per diversi anni. Ma non mollò mai. Ed ora anche ad anni dalla sua scomparsa, Nomadelfia è ancora lì.

Perché hai deciso di raccontarla?

Ero curiosa. Ne sentivo parlare da tempo perché Zeno Saltini era originario della mia zona. In più mi interessano le alternative, vedere che esistono altri modi di vivere, di concepire la vita diversi da quello a cui siamo abituati. Spesso, io per prima, tendiamo a chiuderci nella nostra routine, a pensare che esista un solo modo di fare le cose: quello a cui siamo abituati. Invece le alternative esistono, basta cercarle. A volte fa bene ricordarsi che la realtà è ben più complessa della semplificazione che ne facciamo, a nostro uso e consumo.

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Quale alternativa hai trovato a Nomadelfia?

Lo dice il nome, Nomadelfia significa “Dove la fraternità è legge”: un vero interesse per il prossimo a cui non ero più abituata, prendersi cura degli altri, accoglienza a prescindere senza giudizio. E lo dico da laica. Sono rimasta molto colpita anche dal rapporto diretto e costante in armonia con la natura.

Le foto raccontano tanto del passato, attraverso magazzini, sale, archivi. Sembra ci vivano poche persone oggi. È così?

In realtà no, ho trovato una comunità numerosa. Sono 270 persone, 50 famiglie. Mi volevo concentrare sugli spazi: mi piace documentare le tracce che le persone lasciano, credo a volte raccontino di più. L’accento sul passato l’ho messo volutamente io, perché mi sembrava di grande rilevanza. Ho avuto subito la percezione che gli abitanti fossero molto orgogliosi della loro storia. È la storia di una comunità ma che racconta anche quella dell’Italia intera, dalle guerre, di fatti di cronaca, fino ad oggi.

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Ci sono aneddoti che ti hanno colpito più di altri?

Ho pranzato e cenato con uno dei gruppi familiari per tutta la mia permanenza. Mi piaceva molto stare ad ascoltare i racconti dei membri più anziani, parlavano spesso della mia città di cui sono anche loro originari, di com’era la vita durante la prima e la seconda guerra mondiale. I loro racconti, sono molto simili a quelli dei miei nonni. Mi ha fatto pensare molto alle mie origini, a quanti modi ci sono stati di vivere la Resistenza. Mi ha rimessa in contatto con la mia storia.
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Mi ha colpita anche il cimitero che hanno edificato all’interno di Nomadelfia. L’ho visto per la prima volta come un luogo in cui trovare serenità e non opprimente e triste. Mi hanno detto che prima di morire Don Zeno disse: “Quando morirò non piangete, ma danzate e fate festa perché la morte è l’abbraccio a Cristo.” Per questa ragione gli abitanti non vivono la morte come un momento di lutto ma di riavvicinamento a Dio. È una cosa che ho sempre faticato a vedere nelle altre comunità cristiane. Un’altra cosa curiosa è che sulle lapidi è scritto solo il nome di battesimo, non ci sono cognomi: si è e si resta tutti fratelli.

Quali sono le attività che vengono svolte oggi all’interno della comunità?

Un po’ di tutto. Si lavora, dall’allevamento all’agricoltura, si fanno video e foto, lavori di meccanica e poi c’è l’archivio. Si studia, ci sono le scuole, si fanno sport e teatro. E ovviamente essendo una comunità cristiana, ci sono momenti di preghiera e riflessione.

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Si autosostengono, giusto? Non hanno un vero e proprio reddito.

Esatto. Ognuno all’interno svolge il proprio lavoro e la comunità provvede alle sue esigenze. Nessuno viene pagato, non esiste proprietà privata. Mi hanno detto che le mansioni più faticose o che hanno orari più impegnativi si fanno a rotazione o insieme.

Qual è il significato, per te e per loro, dell’archivio che hai fotografato?

Ho avuto la fortuna di poterlo visitare e ne sono rimasta impressionata. È tutto meticolosamente conservato. Il loro archivio viene ancora utilizzato; spesso gli abitanti ne usufruiscono e anche le persone esterne, a volte per cercare notizie o una fotografia di un parente che vi ha vissuto, anche laureandi che scrivono la tesi. Come già detto, la memoria per i nomadelfi è davvero importante, quell’archivio lo definiscono la cosa più cara in loro possesso, ci ho visto il loro passato ma anche un modo di costruire il loro futuro. Velleità artistiche non ne avevo.


Hirene Tondelli nasce nel 1987 ed è una fotografa di interior design e di travel reportage. Da sempre interessata alla relazione tra gli spazi e le persone che vivono in essi si propone, attraverso un dialogo interiore fatto di immagini, di indagare il suo rapporto con ciò che la circonda. Convinta che il flusso di memorie sollevate da un luogo possa rendere interessante anche la scena più comune. La figura umana appare raramente nei suoi scatti, più interessata a documentare il passaggio delle persone piuttosto che la loro presenza fisica. La sua serie più pubblicata al momento si intitola 1celand, che diverrà in parte, insieme ad immagini scattate in Lapponia, una mostra fotografica intitolata Far North, a Cremona dalla seconda metà di settembre.