Maroni

Operazione di facciata per scaldare i cuori dell’elettorato leghista tradizionale, il referendum potrebbe essere una cattiva idea sotto tutti i punti di vista.

Ieri Roberto Maroni ha annunciato che il 22 ottobre si terrà un referendum sull’autonomia lombarda. Il governatore lo sta architettando da più di due anni — il consiglio regionale aveva già dato il via libera nel febbraio del 2015 — ma ha dato l’annuncio ufficiale soltanto ieri, in una giornata esoterica: era infatti la Festa della Lombardia, una ricorrenza istituita da lui stesso per ricordare la Battaglia di Legnano. Un referendum identico si terrà nel Veneto del governatore leghista Luca Zaia, lo stesso giorno di quello lombardo.

Ecco il quesito a cui saranno chiamati a rispondere i cittadini:

“Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”

Un quesito piuttosto fumoso, che non indica di preciso cosa si intenda con “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” — e che è anche buffo e culinario quando prende in considerazione “la sua specialità.” Ma non è un problema, perché questo referendum in realtà non intende davvero ottenere qualcosa: è stato pensato solo per scaldare i cuori leghisti, e fare un po’ di propaganda per il governatore al termine del suo mandato.

Com’è noto, l’autonomismo è sempre stato uno dei cavalli di battaglia della Lega Nord — il motivo stesso per cui la Lega è nata, forse. Specie nei primi tempi, la parola secesiùn era stampata nel programma e soprattutto nei cuori dei militanti. Col passare tempo però — soprattutto con il consolidarsi dell’amicizia con Berlusconi, l’istituzionalizzazione del movimento e l’ingresso al governo — le spinte indipendentiste si sono annacquate in rivendicazioni più blande: la richiesta di maggiore autonomia per le istituzioni locali, la devolution, la macroregione, eccetera.

Negli ultimi tre anni, il segretario Salvini ha cercato di tenere insieme l’identità nordista col tentativo di fondare un partito populista di destra a base nazionale — mandando su tutte le furie il fondatore Bossi. Salvini, ovviamente, è entusiasta del referendum. Sa bene che non può scontentare la propria  base polentona: nonostante le velleità nazionaliste infatti il suo partito è ancora radicato quasi esclusivamente al Nord, dove governa due regioni importantissime — Lombardia e Veneto. Tra lui e Maroni non scorre buonissimo sangue, ma senza dubbio la Lega arriverà al doppio referendum entusiasta e unita.

Ma questo referendum, soprattutto se non si è leghisti, ha senso?

Va notata, prima di tutto, una cosa: nessun esponente di spicco della politica lombarda si è espresso contro l’idea di una maggior autonomia della propria regione. Le critiche arrivate dall’opposizione, soprattutto quella del PD che in Consiglio regionale è la principale formazione di minoranza, si concentrano tutte sul fatto che il referendum sarà un salasso non necessario per le casse pubbliche. La consultazione, infatti, verrà a costare complessivamente 46 milioni di euro, che potrebbero calare a 16 se si riuscisse a far coincidere il referendum con le elezioni politiche o regionali.

Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, secondo quanto riporta la Repubblica, si è esposto fino a dichiarare quanto segue: “Io consiglierò di votare positivamente. Questo non è un tema che appartiene alla Lega ma un po’ a tutti, e su cui il governo ha dato chiare aperture: a mio parere è un tema giusto. Ma il referendum è assolutamente inutile.” Altri personaggi di spicco come Maurizio Martina, il nuovo migliore amico di Renzi che proviene dalla bergamasca, o il segretario regionale del PD Alessandro Alfieri, hanno tutti mosso critiche su questa linea.

Quello che fa gola agli amministratori locali di ogni colore e dimensione — comprensibilmente, dal loro punto di vista — è la possibilità che il governo conceda alla Regione Lombardia di tenere per sé una percentuale maggiore delle tasse versate allo stato dai propri cittadini. Oggi il residuo fiscale lombardo ammonta a 53 milioni di euro, e tutti sperano di poterlo ridurre per dare un po’ di respiro, ad esempio, alle casse dei comuni.

Leghisti a Pontida, 2011 / Wikimedia Commons
Leghisti a Pontida, 2011 / Wikimedia Commons

In effetti il governo ha già dato disponibilità a trattare con la regione per venire incontro ad alcune delle richieste avanzate da Palazzo Lombardia, rendendo di fatto inutile questo referendum — che in realtà, essendo consultivo e non vincolante, sarebbe inutile anche se il governo avesse ignorato le lamentele di Maroni. Ma alle urne si andrà lo stesso — la propaganda prima di tutto. Se Renzi decidesse di tagliare la testa a Gentiloni andando a votare in autunno, anzi, Maroni sarebbe addirittura molto tentato di concludere il proprio mandato con sei mesi di anticipo — dovrebbe scadere nella prossima primavera — per far coincidere regionali, refererendum e nazionali e ottenere la massima amplificazione mediatica.

Tutti questi punti di vista degli amministratori locali, appunto, sono comprensibili e ovvi. Però, pur essendo le cariche pubbliche più numerose e varie dello stato italiano e che spesso hanno un contatto più diretto con i propri cittadini, gli amministratori locali non hanno necessariamente ragione. Siamo sicuri che l’aumento di potere delle istituzioni locali, in particolare delle regioni, sia una buona cosa? Negli ultimi venticinque anni il discorso politico italiano ha visto crescere una vena di ostilità verso lo stato centrale, visto come un vampiro gestito da politici incapaci e parassiti. Questo non vuol dire, però, che dare più poteri alle regioni sia necessariamente una buona soluzione al malgoverno centrale.

In particolare, in Lombardia e altrove, alcuni tra i maggiori scandali politici degli ultimi anni hanno coinvolto figure — anche di spicco — della politica locale e regionale. Un esempio lampante è il caso dell’ex Presidente della Regione Roberto Formigoni, più volte incriminato per intrallazzi vari, soprattutto nel settore della sanità: che a sentire il centrodestra è il fiore all’occhiello dell’amministrazione regionale, la testimonianza che il decentramento funziona. Forse non è proprio così. Solo un anno e mezzo fa è stato arrestato Mario Mantovani, vicepresidente della Regione (!) e braccio destro di Maroni, con una lunga serie di accuse di corruzione.

Anche nel probabile caso in cui — tramite referendum o trattative dirette col governo — il governatore riuscisse ad ottenere di tenere più soldi in Lombardia, o una maggiore autonomia in qualche campo come l’istruzione o i trasporti o la sanità, è da chiedersi come verrebbero gestiti questo potere e queste risorse.

Cosa ci si può aspettare da quest’amministrazione regionale? Un finanziamento per un nuovo telefono omofobo? Qualche scritta sul pirellone inneggiante alla famiglia tradizionale più di una volta ogni due mesi?

Inoltre, anche se la nostra regione fosse governata dalla giunta più virtuosa possibile, è discutibile che fomentare e incentivare i piccoli campanilismi sia una buona idea. Quando si fa parte di una comunità come può essere quella dello stato italiano è giusto versare il proprio contributo perché poi venga redistribuito. Anzi, soprattutto se si fa parte dello stato italiano, che è uno dei paesi con la più drammatica disparità di sviluppo economico e sociale al suo interno. Basta guardare questa cartina per rendersi conto che la questione meridionale, centocinquant’anni dopo la supposta unità d’Italia, è ancora il nostro problema numero uno di questo paese — nonostante non sia nemmeno nella top 10 degli argomenti più discussi dai nostri politici.

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Anziché consentire che chi è più ricco si tenga più soldi, si potrebbero usare le famose risorse che le amministrazioni locali vorrebbero per sé in un programma serio di investimenti pubblici per la crescita, non assistenzialista, del Mezzogiorno. Il divario Nord-Sud è già enorme — forse allargarlo non è una buona idea.


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