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Poche e poco ascoltate le voci che si sono fermamente pronunciate contro il provvedimento negli scorsi mesi.

I decreti Orlando-Minniti sull’immigrazione sono stati convertiti in legge ieri, con il voto di fiducia alla Camera più risicato nella breve storia del governo Gentiloni: soltanto 330 sì, contro 160 no — oltre un centinaio gli assenti. Questa mattina c’è stato poi un ultimo passaggio formale alla Camera dei Deputati, prima della conversione definitiva in legge.

Completamente ignorata dalle prime pagine dei giornali di oggi, ad eccezione del Manifesto — che titola, con la solita mordacità, “Delitto d’asilo” — la nuova legge prevede:

  • L’istituzione di 26 sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini, presso i tribunali ordinari, ma senza nuove assunzioni tra i giudici.
  • L’eliminazione di un grado di giudizio per le richieste di protezione internazionale — ossia, chi si vede rifiutata la richiesta d’asilo (sorte che tocca alla maggior parte dei migranti che arrivano nel nostro Paese) non potrà ricorrere in Appello, ma solo in Cassazione entro 30 giorni.
  • L’ampliamento della rete dei Cie, sotto il nuovo nome (l’ennesimo) di Centri di permanenza per il rimpatrio — una sorta di ossimoro — distribuiti su tutto il territorio nazionale e “esterni ai centri urbani” — non sia mai che la civile popolazione italica si mescoli ai futuri rimpatriati di pelle scura.
  • La promozione, per volontà delle prefetture, di lavori socialmente utili in favore delle collettività locali, ovviamente “su base volontaria” (cioè lavoro non pagato.)

Il cattivo risultato del governo alla prova della fiducia, però, non deve far pensare a un largo fronte di opposizione contro il provvedimento. Tutt’altro. Le destre hanno votato No, oltre che per il normale gioco politico di opposizione al governo, perché avrebbero desiderato provvedimenti più pesanti, accusando il presente decreto di essere inefficace e soltanto “uno slogan.”

I decreti sono il coronamento della svolta nazionalista e conservatrice che Minniti ha dato al governo Gentiloni, che a scanso delle numerose accuse di essere un “governo fotocopia” del precedente governo Renzi, su questo fronte non ha mancato di dimostrarsi il governo più conservatore dai primissimi anni del governo Berlusconi. Minniti celebra il risultato in un’intervista delirante pubblicata sul Resto del Carlino dove prende di peso linguaggio dall’ambito leghista: “Teorizzare la politica delle porte aperte agli immigrati non ha senso: l’accoglienza ha un limite naturale nella capacità di integrazione. Negarlo significa mettere a rischio le basi della democrazia del nostro paese.” Ma soprattutto un piccolo inno al cittadino armato che è una novità mai sentita da un ministro di un governo di centrosinistra “La sicurezza in armi dei cittadini deve essere assicurata dallo Stato. Così non fosse, salterebbe il contratto sociale.”

Ora, nessuno peccherà della supponenza di voler spiegare al ministro Minniti quali siano le basi della democrazia del nostro paese — di sicuro non si preserva la democrazia con un abbozzo di “diritto etnico” — e nemmeno di come il contratto sociale sia avanzato leggermente negli ultimi trecentosessantasei anni, da quando Hobbes diede alle stampe il Leviathan, ma dichiarazioni del genere mettono i brividi. Così come mette i brividi il tentativo di appropriazione di questi valori. “Sono di sinistra”? No, e no grazie. Potete leggere una versione online della chiacchierata visionaria su Quotidiano.net. Chiacchierata che si apre con una lunga dissertazione sul valore cabalistico del numero 12, per cui valutate di conseguenza anche le parole del Ministro.

Là dove avrebbe dovuto esserci — a sinistra — l’opposizione è stata quanto mai flebile. Neppure il nuovo fronte di Mdp è riuscito a votare compattamente contro la conversione in legge: gli ex Sel non hanno partecipato al voto, mentre gli ex Pd (non senza eccezioni) hanno deciso di accordare comunque la fiducia al governo. Oggi, nel voto di merito, dovrebbero tutti votare no — ma questo non cambierà la sostanza di un’opposizione sottovoce che subordina le vite di migliaia di persone alla salvaguardia di fragili equilibri parlamentari.

Poche e poco ascoltate le voci che si sono fermamente pronunciate contro il provvedimento già negli scorsi mesi, anche da dentro il Pd, come i senatori Luigi Manconi e Walter Tocci, che non hanno votato la fiducia al governo nel passaggio del decreto al Senato, denunciando l’istituzione di un diritto diseguale per gli stranieri, quasi un “diritto etnico” — perché in nient’altro trova giustificazione, se non nella diversa nazionalità degli interessati.

È su questo punto, sull’abolizione del diritto di Appello, che si concentrano le critiche delle associazioni e umanitarie e di alcune sigle sindacali, che ieri, mentre andava in scena il voto di fiducia, hanno organizzato un sit-in di protesta in piazza Montecitorio.

Secondo Stefano Greco, avvocato della Casa dei diritti sociali interpellato dal Manifesto, la legge violerebbe l’articolo 111 secondo il quale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo” — ovvero in un contraddittorio tra parti, e con un giudice terzo e imparziale.

In una colonna dell’Huffington Post Enrico Rossi, presidente della regione Toscana di Articolo Uno, che comunque ha votato la fiducia al governo ieri perché a votare contro il Pd questi ragazzi proprio non ce la fanno, è stata l’unica voce forte sull’argomento — se così si può chiamare, “essere una voce forte,” ripetere per l’ennesima volta valori che dovrebbero essere fondamentali della sinistra: il lavoro, lo Stato sociale, la lotta contro la povertà — e non contro i poveri, spacciata per sicurezza.

La relativa mancanza di mobilitazione, in particolare su scala nazionale, insieme al silenzio di gran parte dei media sottolinea ancora una volta come si sia deciso di riformare, e in questo caso deformare lo Stato in Italia e in Europa: trasformando ogni problema in un’emergenza, appiattendo grandi temi che per decenni sono state questioni identitarie centrali al dibattito politico e erodendo i diritti e la decenza insieme alle forze di chi si dovrebbe opporre. È una tattica di normalizzazione, che prima allarma e scandalizza i cittadini, ma che inevitabilmente porta a un solo risultato: l’apatia e l’indifferenza.


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