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Come è possibile non provare empatia di fronte a tale orrore? Come si fa a non avere il terrore di trovarsi in una situazione simile? Come si fa a stare dalla parte del carnefice?

Ne avrete letto in abbondanza, e approfonditamente — ne ha scritto persino Saviano: l’altroieri pomeriggio tre dipendenti del supermercato Lidl di Follonica hanno caricato su Facebook un video agghiacciante, qualcosa che a stento riusciamo a descrivere. I tre avevano trovato fuori dal supermercato due donne di etnia rom mentre cercavano degli avanzi nei cassonetti, e le avevano costrette nel vano dove i cassonetti erano stipati, chiudendole in gabbia. Poi, hanno fatto un video per vantarsene, e l’hanno messo su Facebook.

Non appena il video ha iniziato a diventare virale, Lidl ha pubblicato un post in cui si distanziava dai tre razzisti, solo per essere travolto da commenti in difesa dei tre, pieni di assurdità sulle due donne, sostanzialmente colpevoli di povertà.

Nella discussione ovviamente non poteva non entrare a gamba tesa Matteo Salvini, che non solo ha attaccato le due donne, ma ha offerto supporto legale ai tre, che saranno probabilmente licenziati da Lidl.

Siamo di fronte a un evento spartiacque, che mette in mostra il risultato atroce di un decennio di retorica dell’odio. Ma malgrado tutto, malgrado tutti gli elementi che spiegano il comportamento dei commentatori — l’odio viscerale per “i rom,” coltivato dalla destra da vent’anni, i meccanismi del bullismo e del trolling su internet, la reazione sembra impossibile.

 

Stiamo parlando di un video in cui si vedono due donne dietro delle sbarre, una piange, l’altra urla disperata guardando la camera. Verrebbe da dire, come animali. Come è possibile non provare empatia di fronte a tale orrore? Come si fa a non avere il terrore di trovarsi in una situazione simile? Come si fa a stare dalla parte del carnefice?

Sono numerosissimi gli studi che indagano come si modifica l’empatia dietro uno schermo. In uno studio del 2007 su 197 studenti età 17–23 è stato osservato che giocare con videogiochi che scatenassero emozioni negative rallentava radicalmente, in test successivi, il riconoscimento di facce sorridenti proiettate ad alta velocità tra altre espressioni, tra cui espressioni negative.

È uno dei primi casi in cui abbiamo dimostrazione numerica di un problema fondamentale di internet: come funzionano i neuroni specchio in una situazione di sostanziale privazione sensoriale?

Controintuitivamente, il combustibile del motore dell’internet social sono le emozioni. Facebook, Instagram, Snapchat, e in maniera minore Twitter sono perfettamente costruiti per concertare i sentimenti dei propri utenti — e l’obiettivo non è quello di mantenerli in una generale e tendenzialmente alienante serenità, ma di creare, davvero, un concerto: alternare sentimenti, quanto più possibile primitivi, come le reazioni di Facebook, per creare progressivamente dipendenza. I modelli d’uso riflettono questa volontà di creare uno stream di emozioni, con Snapchat che costruisce addirittura reimplementando — sostanzialmente — lo zapping televisivo. Non ti piace quello che stai provando? Non serve nemmeno scollare, cercare: tocca lo schermo e cambia tutto — a schermo pieno.

In iBrain: Surviving the Technological Alteration of the Modern Mind (Barlow, Small, Vorgan, 2009), i ricercatori misurano, grazie alla risonanza magnetica, come l’uso di internet causi progressivo aumento dell’attività cerebrale scatenato dall’uso di internet stesso. Ovvero: più si usa internet più i sentimenti causati da internet si fanno sempre più forti.

empathy

Negli anni successivi, tuttavia, molteplici studi si sono occupati del fatto che esercitare empatia sia particolarmente difficile su internet. Secondo Weinberg, 2013, la causa è il “paradosso della solitudine in presenza di terzi virtuali,” ovvero: internet ci pone in presenza di terzi, interagendo con loro o osservando le loro disgrazie, ma online sarebbe più facile porli nella posizione del “non me,” dell’altro. Secondo Lévinas (1984), l’empatia è una responsabilità, ma è vissuta come tale solo in presenza del volto della persona.

È particolarmente interessante osservare come la crudeltà prodotta dagli utenti in casi come questo non porti loro nessun guadagno: trollare, postare messaggi razzisti, inneggiare al fascismo non è la stessa forma di mancanza di empatia necessaria per rubare soldi da una giacca, o per truffare sconosciuti. È crudeltà unicamente narcisistica, che nasce come espressione del proprio brand personale.

Secondo due studi presentati in Buckels, Trapnell, Paulhus, 2014 un’analisi dei comportamenti da troll su internet è da ricondurre direttamente alla tetrade oscura, il gruppo di personalità costituito da narcisismo, machiavellismo, psicopatia e disturbo borderline. I ricercatori arrivano alla conclusione tranchant che il trolling è una manifestazione quotidiana del sadismo — “l’associazione tra sadismo e punteggi GAIT (*Global Assessment of Internet Trolling) era così forte che si potrebbe dire che troll online sono perfetti prototipi di sadisti.”

Il problema della crescente mancanza di empatia è stato ampiamente discusso negli Stati Uniti dopo l’elezione di Donald Trump — una società che disimpara l’empatia è naturalmente prona al narcisismo. In un paper di Major, Blodorn e Blascovich, 2016, i ricercatori hanno osservato un netto aumento di convinzione nel supporto a Donald Trump tra i soggetti del test quando venivano informati che le proiezioni prevedono che entro il 2045 tutti i gruppi non bianchi, sommati, sarebbero stati in numero superiore alla popolazione caucasica degli Stati Uniti. Notare: non si parla di un futuro lontanissimo in cui “l’americano bianco” sia una minoranza, ma solo il momento in cui tutti gli altri insieme sarebbero di più.

https://twitter.com/donnagiulietta5/status/835095210241769477

https://twitter.com/MarmoAColazione/status/835119524403953666

(“Non riesco davvero a capire”)

Un importante esperimento di Munger, 2015 dimostra il “gap empatico” online — persone che si stavano scatenando in messaggi razzisti online capivano che non dovevano comportarsi così solo quando glielo spiegava qualcuno come loro: un utente pettinato con una bella foto di un maschio caucasico sulla trentina. (Ma gli utenti erano bot.)

È difficile — praticamente impossibile — arrivare a una soluzione conclusiva del problema: spiegare che il razzismo è brutto, cercare di esercitare empatia noi verso i razzisti può avere effetti riappacificatori in breve tempo, ma è valido anche l’argomento opposto, come sostenuto da Dave Nussbaum del BSPA: potrebbe essere più proficua, sul lungo termine, una conversazione incessante a muso duro, in modo da creare una dimensione per la quale il discorso razzista non è mai tollerabile e tollerato. Così come è difficile capire se questo sia semplicemente il futuro della nostra società o solo una fase, mentre i nostri cervelli si adattano al nuovo mondo post-sensoriale. In ultimo, è importante sottolineare che non è il medium in sé razzista, ma quello che noi ne facciamo: il 2016 è stato un anno di profonda analisi sul fronte del razzismo degli algoritmi, e sono stati molteplici i casi di intelligenze artificiali che hanno sviluppato forme di razzismo. Questo avviene perché gli algoritmi si piegano a scimmiottare il comportamento umano o premiano i contenuti per popolarità — ma allora, prima che a livello statale o di termini di servizio tra privati è forse possibile costruire social network che non premino il degrado emotivo?

Può essere una sfida interessante per la scienza, ma è difficile immaginare una ragione di mercato perché esistano. Ma ci servono — presto.

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.