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Diaframma è la nostra nuova rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il loro portfolio. Questa settimana, Giacomo Mignani e Life Onlus BG.


Life Onlus BG è nata nel 2013 “per supportare e finanziare progetti in ambito umanitario ideati e realizzati da associazioni locali con scarsa o nulla rilevanza mediatica, utilizzando la fotografia come strumento di sensibilizzazione atto a raccogliere consensi.” Giacomo Mignani è il presidente e tra i fondatori dell’organizzazione, ed è di Bergamo — come Life Onlus, del resto. L’abbiamo raggiunto per parlare del loro lavoro umanitario e fotografico.

Cosa è nato prima? L’amore per la fotografia o il desiderio di renderti utile per le persone bisognose?

La mia passione per la fotografia è nata dopo un viaggio in Messico e Guatemala. Durante un viaggio successivo, in Perù e in Bolivia, è diventata così trascinante che una volta tornato ho deciso di frequentare dei corsi di fotografia a Roma, per migliorare le mie conoscenze in materia. Questa breve ma fondamentale esperienza mi ha fatto innamorare del fotogiornalismo, che racconta e denuncia, con rabbia ma anche speranza. Dopodiché ho deciso di intraprendere per la prima volta un viaggio umanitario, se cosi si può chiamare. Quindi, se dobbiamo mettere le cose in ordine, è nato prima l’amore per la fotografia – che ha trovato poi il suo habitat nelle realtà che seguivo da volontario.

Quando e come hai deciso di far confluire le due cose in una ONLUS?

Dopo il primo viaggio in Malawi come volontario — tra gennaio e marzo 2013. La prima volta in Africa non si scorda facilmente, anzi, non si scorda e basta. L’idea c’era anche prima di partire ma si sa come vanno queste cose: fino a quando non ti applichi seriamente rimane tutto solo teoria. Una volta tornato, con un gruppo di amici abbiamo fondato la nostra Onlus.  

Quanti reportage hai portato a termine e, dunque, quanti progetti hai sostenuto con la ONLUS?

Sin dall’inizio l’idea era quella di supportare un progetto all’anno, sebbene durante il primo anno abbiamo fatto uno strappo alla regola supportando due diverse realtà in Malawi: un orfanotrofio gestito da una signora bergamasca e una comunità isolata con la realizzazione di un pozzo attraverso l’appoggio dei missionari Monfortani. Il racconto per immagini che ho presentato il primo anno in effetti era un insieme di scatti di diverse situazioni in cui mi sono ritrovato, da Cui il nome “Inside Malawi.” Dal secondo anno (2014), sempre in Malawi, tutto è stato più mirato e circoscritto all’unico centro per ragazzi e ragazze diversamente abili con il reportage “Mtendere, I care you” (Mtendere è il  nome del centro).

Dopo due anni in Malawi, nel 2015 abbiamo sposato la causa degli albini in Tanzania, una situazione veramente triste che porta queste persone a vivere costantemente sotto minaccia per motivi assurdi, frutto di ignoranza e mancanza di educazione. Ho visitato e vissuto in uno dei dodici centri di protezione del governo, il Kabanga Protectorate Center, che ospita una settantina di albini fra donne e bambini. Da questa esperienza è nata la prima parte del reportage “Albinos, don’t let them alone” con la quale abbiamo sostenuto l’associazione Asante Mariamu che da anni si batte per i diritti e le condizioni di vita degli albini. Siamo tornati in Tanzania nel 2016, per continuare a supportare questa realtà e la sua battaglia quotidiana. Ho realizzato la seconda parte di “Albinos, don’t let them alone”, questa volta concentrandomi sulla parte di popolazione albina che è riuscita ad avere un lavoro, una famiglia, una vita “normale” nel complesso, per dare un altro punto di vista e non rischiare di ripetere lo stesso lavoro fotografico dell’anno precedente. Con questo lavoro abbiamo finanziato l’attività della Josephat Torner Foundation.

Ti sono mai arrivate proposte di lavoro in ambito fotografico?

No. Non saprei se purtroppo o per fortuna – mi farebbe piacere ricevere qualche incarico, ma davvero di mio gradimento. So che la vita del freelance non è semplice e non voglio dipendere da giudizi di photo editor o attese di pagamenti. Per questo nella vita faccio tutto un altro tipo di lavoro – il giardiniere. Forse sono un idealista, però per ora mi gratifica molto quello che faccio con la mia fotografia ed io sono contento così. Questo mi permette di decidere dove andare e cosa raccontare. Per questo attualmente sono in Chiapas per vivere con i coltivatori di caffè di una cooperativa zapatista, cioè autonoma e indipendente. Questa sarà la realtà che aiuteremo nel 2017.  

Proporremo durante la settimana il lavoro sugli albini in Tanzania. Ci hai spiegato come avete aiutato questa realtà con la ONLUS; da fotografo, invece, cosa ti ha guidato nello sviluppo del reportage?

Il reportage è lo stile fotografico che più sento nelle mie corde perchè permette di raccontare una storia. Questa storia prima la si deve conoscere, si devono conoscere i personaggi, si deve capire il contesto e le dinamiche che portano una realtà ad essere come è, riconoscibile e diversa dalle altre per determinate peculiarità. Non basta scattare, bisogna prima farsi conoscere, diventare amico dei soggetti che si ritrarranno, guadagnarsi la loro fiducia e, come dicevo prima, diventare parte integrante del luogo. Uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi una volta disse che “scattare significa allineare la mente, l’occhio e il cuore,”  cosa non esattamente facile e immediata. È per questo che mi prendo sempre un po’ di tempo per viaggiare e realizzare un reportage.