matteo_renzi_2010

È di queste ore l’ufficiale apertura da parte di Alfano ad un possibile rinvio del referendum. Sarebbe, senza ombra di dubbio, un rinvio a data a destinarsi, nel tentativo di coinvolgere il resto del centrodestra a riscrivere nuovamente la riforma, questa volta con la maggioranza dei due terzi in Parlamento. Giusto? Ripresentarsi al voto, rimandato, vuol dire garantirsi la sconfitta.

Impossibile dirlo. È impossibile leggere la strategia del PD e di palazzo Chigi, perché sbagliano con tale consistenza tutto, da costringere a una pausa di ragionamento – siamo fuori dal loro target demografico? Non stiamo capendo?

Si potrebbe riassumere tutti gli errori del comitato per il sì in questo tweet:

https://twitter.com/bastaunsi/status/793762510948143104

Ma preferiamo partire da piú indietro, molto piú indietro.

https://www.youtube.com/watch?v=wJj-Ucv3efg

È il discorso di “concessione” alla sconfitta del 3 dicembre 2012, quando Matteo Renzi venne stoppato al ballottaggio delle primarie del PD. È difficile alienare il discorso dal Renzi che avrebbe poi iniziato a scalciare la mattina successiva, e avrebbe poi scalato il partito con ogni possibile blitz e scorrettezza.

È anche, però, l’apice di retorica politica che il Presidente del Consiglio avrebbe raggiunto. Nel corso della sua scalata, la retorica giovane e fresca, positiva anche nella sconfitta di Renzi, si è semplificata in retorica della vittoria. Non positiva e ottimista, ma tracotante, all’interno della quale la sconfitta è intollerabile.

Questo cambiamento di retorica ha conciso con un ulteriore slittamento del premier, del suo governo, e del suo partito verso il Centro. E non è questo il problema, di per sé, se non al di fuori di una conta elettorale che solo il tempo rivelerà se azzeccata o no. Il problema è che Renzi è meno bravo a farla, una comunicazione politica di questo tipo.

Renzi è al suo meglio quando può vantarsi di essere un underdog alla ribalta, quando deve improvvisare blitz e raccontarsi come salvatore della situazione.

Non è bravo quando deve raccontare storie di lento e costante miglioramento, non è bravo quando, dalla cima, deve mostrarsi comprensivo verso gli sconfitti, non è bravo a spiegarsi quando vince — l’unica cosa importante è aver vinto.

Sad trombone

In questo calderone comunicativo, se non avvelenato certamente tossico, nasce la proposizione politica di questo referendum.

  1. Questo è il primo Governo dopo tanti anni che sta lavorando tantissimo per cambiare il Paese, e questi sono i suoi innumerevoli successi.
  2. Il bicameralismo rende l’Italia ingovernabile: è impossibile tornare a galla senza slegarsi dalla caviglia quel macigno che è il Senato.

L’intersezione dei due annunci è evidentemente un non sequitur, una delle due parti deve per forza essere una menzogna: o questo governo non è riuscito a fare le mille riforme che vanta, o si può governare con il bicameralismo. Persino con una maggioranza raffazzonata e messa insieme col saldatore, a martellate.

Non è necessario fare un’analisi politica: tutti, almeno a pelle, sentono questa dissonanza, è inevitabile.

L’intera campagna per il Sì, invece, parte proprio da questo presupposto — se vi piace questo Governo (per le cose che ha fatto), votate Sì, così che finalmente potremo fare le cose (ma non le state già facendo?)

Si è così innescata una macchina conservatrice non necessariamente in senso politico, ma che mira alla conservazione: di questo governo e delle sue politiche.

Ma allora come si può trovare la propulsione per portare la gente al voto, e prima, in piazza? L’esperimento dell’evento in Piazza del Popolo è stato il flop di un partito che sta perdendo il polso della situazione: perché un evento in uno spazio così grande?

Le folle oceaniche le si mette insieme con la propaganda, non con la stampa attuale – che, checché ne dica l’opposizione, è piú che ragionevolmente pluralista e benevola nei confronti delle sciocchezze dei partiti non di governo. Renzi ha messo insieme un evento improvvisato, a cui ha partecipato, al contrario di quello che doveva essere, chi ha il terrore che le cose cambino.

È stata l’unica risposta che il comitato del Sì è riuscita a produrre in risposta ai tentativi di utilizzare la sconfitta referendaria in una spallata la governo: sulla scheda potevano anche scrivere Renzì, risposta adeguata ad un quesito mutante che, per praticità, è diventato un voto di metà mandato.

L’unica fortuna del Presidente del consiglio è la totale incapacità del comitato per il No di prodursi in una comunicazione organica, se non monocolore — impossibile, data l’eterogeneità dei partiti che vi confluiscono.

E proprio in questa eterogeneità c’è lo spiraglio di quello che sarebbe potuta essere la storia raccontata da Renzi al suo elettorato: quello di un Governo sotto assedio, i cui nemici si sono finalmente riuniti, da destra a sinistra, attorno a un’unica bandiera. Un Governo che aveva di nuovo bisogno del suo popolo per sopravvivere, e cambiare l’Italia.

Renzi ha preferito raccontarci come è stato bravo, a cambiare l’Italia, da solo. E così rischia di restarci, solo.

Blogger, designer, cose web e co–fondatore di the Submarine.