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foto CC-BY-SA Stéphane M. Grueso

Quando il segnale GPS di un’imbarcazione scompare dagli schermi della capitaneria di porto non è mai un buon segno, soprattutto se la nave in questione è una porta-container carica di rifiuti tossici.

Ne sanno qualcosa alla procura di Reggio Calabria, che nel 1995 ha istituito un pool per investigare sulle cosiddette navi a perdere: più di una settantina di mercantili misteriosamente affondati nel Mar Mediterraneo mentre trasportavano sostanze stupefacenti, rifiuti industriali o scorie radioattive.

Secondo le ipotesi dei magistrati Francesco Neri, Nicola Maria Pace, Domenico Porcelli e Paolo Russo, che tra il 1995 e il 2009 si sono occupati delle indagini, dietro alla vicenda delle navi a perdere (anche dette navi dei veleni) ci sarebbe stato un vero e proprio business internazionale dell’ecomafia.

Una vasta rete di imprenditori senza scrupoli che, con la manovalanza della criminalità organizzata e con la copertura di servizi segreti deviati, garantiva agli industriali del Nord Europa lo smaltimento a basso prezzo dei rifiuti di fabbrica, inabissandoli in fondo al mare a bordo di vecchie imbarcazioni prossime al collasso o all’interno di appositi siluri penetratori.

Per lo Stato italiano, che a partire dal 1992 ha fatto mettere sotto segreto oltre 600 fascicoli di informative riguardanti navi dei veleni e traffici di rifiuti in Somalia, il caso è ufficialmente chiuso.

Eppure, a distanza di oltre sedici anni dagli ultimi naufragi sospetti, il fenomeno sembra tutt’altro che scomparso.

È infatti un giorno imprecisato tra il 30 dicembre 2015 e il 2 gennaio 2016 quando la nave container Horizon Trader, in viaggio al largo delle coste di Hazira (India), lancia un S.O.S. per comunicare un blackout e poi spegne il trasponder.

La situazione è delicata, perché quella cargo in passato trasportava policlorobifenili, sostanze tossiche ora messe al bando, che hanno contaminato la stiva. Il suo armatore, l’industria texana All Star Metals, aveva inizialmente accettato di far smantellare il mercantile negli Stati Uniti, ma all’ultimo momento aveva cambiato idea, optando per il beaching (una pratica di demolizione decisamente insostenibile) nel porto di Alang, in India.

Tale decisione aveva scatenato la preoccupazione di alcune organizzazioni di monitoraggio ambientale, tra cui la NGO Toxic Watch Alliance (TWA), che già in precedenza aveva notificato delle attività sospette attorno alla Horizon Trader.

In un bollettino del settembre 2015, TWA comunica al ministro dell’ambiente indiano le merci pericolose che la nave ha trasportato in passato, la sua età avanzata, il suo repentino passaggio di proprietà e il cambio di bandiera, circostanze molto simili a quelle riportate dall’inchiesta sulle navi dei veleni.

Comunque, a recuperare l’imbarcazione in panne viene mandato il rimorchiatore statunitense Miss Gauntlet, lo stesso che il 2 settembre 2015 aveva scortato la nave fuori da porto di Brownsville, in Texas.

Secondo quanto riportato da Informatore Navale, il rimorchiatore raggiunge la nave e la disincaglia, quindi le imbarcazioni intraprendono rotte differenti, ma dopo poco il distacco entrambi i segnali GPS scompaiono.

A questo punto vengono mobilitati il centro di coordinamento di soccorso marittimo (MRCC) di Mumbai e la Guardia Costiera indiana, che però non riescono a rintracciare i due natanti fino all’8 gennaio, quando vengono avvistati nel porto di Alang, molto più a nord. La Horizon Trader però, è già riversa sulla spiaggia, in attesa di essere demolita.

Che cosa è successo nell’arco di tempo in cui i due trasponder erano spenti?

Le fonti sono frammentarie e ufficialmente non è ancora stata fatta chiarezza, ma secondo TWA la dinamica dell’incidente sarebbe chiara. Il mercantile avrebbe simulato un blackout allo scopo di far perdere le proprie tracce, quindi avrebbe girovagato nel golfo di Khambhat e, non appena trovato un punto adatto, avrebbe sversato in mare il suo carico segreto: inquinanti organici, amianto, metalli pesanti e scorie radioattive.

Ma il caso Horizon Trader è solo uno dei tanti episodi che rientra nel discutibile business dello shipbreaking, ossia lo smantellamento delle grandi imbarcazioni obsolete nei porti o sulle spiagge dei Paesi in via di sviluppo.

Cantieri navali a cielo aperto e pressoché improvvisati, spesso svincolati da qualsiasi legge ambientale, nei quali la presenza degli argani meccanici è ridotta al minimo, rimpiazzata dalla manodopera locale: abbondante, economica e quasi sempre sprovvista delle più basilari protezioni, fisiche e giuridiche.

A denunciare il fenomeno e l’eclatante vicenda Horizon Trader sono le organizzazioni no-profit Shipbreaking Platform e Basel Action Network, praticamente le uniche a tenere sotto controllo questo business, definito come “il lavoro più pericoloso del mondo,” che interesserebbe annualmente il 73% di tutte le grandi imbarcazioni del mondo.

Potremmo essere di fronte a un nuovo affaire navi a perdere, stavolta su scala intercontinentale. Una pratica che stride palesemente con gli standard ecologici dettati dalle esigenze del nuovo millennio, ma soprattutto un gigantesco giro di denaro, in cui il confine tra legalità ed ecomafia è sottile. I media occidentali, in particolare europei, dovrebbero prestarvi maggiore attenzione.

Foto di copertina e nel corpo dell’articolo: navi in via di smantellamento sulle coste di Chittagong, in Bangladesh. Dal documentario Shipwreck di Javier Gómez Serrano, 2010. (Flickr)