Giorno 3
Budapest
Una cosa che mi ha sempre creato problemi durante i miei viaggi, problemi di ordine psicologico s’intende, inutili pare mentali per dirla come andrebbe detta, è il non mostrare al mondo esterno il mio status di turista. Non far vedere agli altri che sei di passaggio, che stai viaggiando, che non hai la più pallida idea di dove ti porterà la svolta a destra come anche la svolta a sinistra. Mostra di appartenere, di essere a tuo agio, di sapere perfettamente tutto quello che ti sta succedendo attorno. Fingi, fingi spudoratamente. E quindi non avere l’aspetto esteriore della turista. Nascondi la cartina anche se poi ti perderai, e dovrai tirarla fuori dieci volte dalla borsa, quando sarebbe stato così più comodo tenerla semplicemente in mano. Nascondi la macchina fotografica. Non fare foto se non quando lo ritieni assolutamente necessario. Non chiedere indicazioni.
Nei bar e nei locali, osserva il comportamento degli altri prima di agire, e poi imitalo, in modo da non risultare fuori luogo, da non metterti in mostra come straniera, estranea. Mi domando da dove io abbia pescato tutte queste regole autoimposte, da dove mi derivino. Sospetto che sia un condizionamento milanese, Milano città dell’apparenza, dove se sei estraneo e non sai come funzionano i giochi tutti lo vedono subito, immediatamente, non c’è neanche da sperare di passare inosservato. Oppure sono semplicemente io il problema, e non mi piace attirare l’attenzione. Non lo so.
Fatto sta che a un certo punto quando viaggi, soprattutto quando viaggi da sola e vuoi tenere un blog, con delle foto, di quello che ti succede, a questi problemi psicologici dovrai pure venire incontro. Alla quarta volta che ti perdi, e che tiri fuori la macchina fotografica che avevi abilmente nascosto, non c’è paranoia che tenga e ti rassegni a tenere in mano la cartina, e la fotocamera attaccata alla cintura. E scopri, incredibilmente, che non succede niente, perché tanto che sei una turista e che non hai la più pallida idea di dove stai andando si vedeva anche prima, nonostante ti sforzassi di eliminare le prove. Oggi ho persino avuto il coraggio di fotografare un paio di bar in cui mi sono seduta a bere un caffè, pensate i progressi.
Ma come sempre, andiamo con ordine. Anche se non lo farò, mi serve ripeterlo per mantenere il ritmo e non divagare, che poi se no finisco per perdermi nelle costellazioni dei miei pensieri e vi parlo di tutto tranne che del mio viaggio.
Mi sono svegliata e un signore polacco sulla quarantina, occhioni azzurri e sorriso gioviale da bambino, residente della stanza accanto, è entrato trionfalmente in camera per raggiungere il bagno, con la maglietta del pigiama e degli slip neri. Devo ammettere che la visione, ancora assonnata, mi ha creato qualche scompenso. Lui mi ha sorriso.
“Where you from?” ha domandato subito, in inglese sconnesso. “Italy”, ho risposto, e come sempre quando dici a qualcuno che sei italiana, vieni gratificata da un’esclamazione di gioia e stupore, non ho ancora capito perché. Dopo avermi dimostrato il suo apprezzamento per il mio paese di provenienza, si è battuto il petto orgoglioso: “I come from Poland.” Ha detto. “Polonia.”, perché tutti qualche parola di italiano la sanno. Poi si è ritirato in bagno. Prima di uscire l’ho incontrato che mangiava pane e formaggio sbriciolando sul suo letto, e mi ha salutato con la mano.
Nella modalità di viaggio in solitaria, ho capito, si passa un sacco di tempo seduti ai tavoli dei bar. Si parla con un sacco di camerieri, che hanno generalmente la tendenza a occuparsi di te con un occhio di riguardo, visto che sei sola, visto che ordini due caffè, una coca cola, dov’è il bagno, qual è la password del wifi, quale vino mi consigli, dov’è l’ufficio della posta?
(Che poi non ho capito una cosa, a Budapest gli uffici della posta li nascondono bene, sono introvabili, ho appena girato in tondo per mezz’ora in una piazza dove mi avevano assicurato che c’era la posta, davvero, e tutti i passanti a cui ho chiesto mi hanno guardato con occhio vacuo. Mi spiace, le cartoline ve le spedisco da Praga)
Ma a Budapest – ve l’ho già detto che Budapest è una città meravigliosa? – di bar, ovviamente, ce ne sono di meravigliosi. Alcuni li chiamano ruinpubs, perché, suppongo, molti di essi si trovano in edifici in rovina, tra cui uno dei più famosi, il Szimpla. Su internet ne ho trovati elencati 22, e tra una cosa e l’altra, tra la mattina e la sera, sono riuscita a visitarne una decina. Sono bar, ristoranti, discoteche e gallerie d’arte. Sono deliranti agglomerati di stanze, sgabuzzini, divani, oggetti improbabili, colori, rumori, banconi di bar, sedie e tavoli, lanterne, biciclette, bambole di pezza, quadri, qualsiasi cosa vi venga in mente. La prima impressione stordisce e affascina, nel primo pomeriggio sono vuoti e accoglienti, la notte gremiti di corpi sudati e ubriachi. Si possono passare ore a osservare i muri, i graffiti, a scoprire i dettagli e a notare con stupore che l’apparenza caotica è prodotto della più maniacale attenzione di qualche artista amante dell’accumulo. E infatti ho deciso di passarci diverse ore, e ho scandito la mia giornata vagabondando da uno all’altro, da una via all’altra, da un caffè all’altro.
Negli intermezzi, poi, ho passato un paio di ore in piacevole compagnia delle monumentali statue di leader comunisti risalenti al periodo sovietico, al Memento Park, e ho dovuto castrare i miei istinti per non comprare tutti i cimeli con falci e martelli in vendita al negozio di souvenir – sia il negozio che la commessa non erano palesemente mai usciti dall’URSS. E ho scalato il parco che porta alla Cittadella per vedere il tramonto dall’alto, maledicendo tutte le sigarette mai fumate in vita mia, la prossima volta fotografo una cartolina della vista e via, che tanto non lo saprà mai nessuno.
Esperimento sociale
Posso affermare con una certa sicurezza, data da esperienza – poca esperienza, è vero, ho solo 23 anni, ma pur sempre esperienza – che se a Milano, o comunque in Italia, entri un locale la sera, ragazza, sola, e ti siedi a un tavolo e ordini un bicchiere di vino, la tua solitudine durerà al massimo dieci minuti. Ci sarà sempre un qualche esemplare di sesso maschile che sentirà il bisogno di farti compagnia. È una deformazione professionale del maschio italico, una qual certa galanteria che, non lo nego, a volte è anche piacevole. A volte. Spesso, invece, sconfina nel comportamento molesto, soprattutto se introdotta da insopportabili frasi sull’onda del “Ma cosa ci fai qui tutta sola?”. Che male c’è se sono qui tutta sola, mi chiedo. Perché è così stigmatizzata la solitudine? Comunque, questo per dire che ho condotto un personalissimo esperimento sociale, e posso assicurare che qui, in tutti i bar affollati e ubriachi in cui mi sono seduta a bere un bicchiere di vino, nessuno è venuto a rompermi le palle. Ammetto di aver assunto l’espressione fredda e distante che assumo sempre quando voglio tenere il mondo a distanza, the bitch face come qualcuno sull’internet ha deciso un giorno di chiamarla. Ma non so, ho avuto come l’impressione che la solitudine, anche quella femminile, sia qui più compresa, e quindi tranquillamente rispettata.
Memo del giorno
- Ricordati che soffri di vertigini prima di salire su un ponte che attraversa il Danubio, non dopo.
- Guarda dove metti i piedi, Bianca, continui a inciampare.
- Se passi un’ora della tua vita a segnare con crocette sulla cartina tutti i posti dove vuoi andare, e a pianificare un itinerario che ottimizzi al massimo, poi quando esci la cartina, magari, portatela con te e non lasciarla a casa.