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I social network e gli aggregatori sono paragonabili a immense discariche che lucrano vendendo cartelloni pubblicitari tra l’immondizia.

Se anche voi amate perdere tempo su internet, ma non rinunciate a intellettualizzare qualunque cosa, non potete non conoscere questo lungo post del 2011, al termine del quale Wu Ming 1 dichiarava:

Su Facebook il tuo lavoro è tutto pluslavoro, perché non vieni pagato. Zuckerberg ogni giorno si vende il tuo pluslavoro, cioè si vende la tua vita (i dati sensibili, i pattern della tua navigazione etc.) e le tue relazioni, e guadagna svariati milioni di dollari al giorno. Perché lui è il proprietario del mezzo di produzione, tu no.

(la pagina Totò, Peppino e il precariato cognitivo lo ha ovviamente fatto a meme)

L’inclinazione alla retorica marxista di Wu Ming è stata accolta con la consueta post-ironia.

Post-ironia a parte, Wu Ming 1 coglieva una questione avvertita da molti.

È interessante riprendere l’argomento, a distanza di un anno e alla luce della nuova attenzione che il dibattito culturale italiano e internazionale sta dedicando agli user generated content. Su tutti Teoria della Classe Disagiata di Raffaele Alberto Ventura, ma anche La guerra dei meme di Alessandro Lolli o il meno rilevante per quanto si dirà di seguito, ma comunque fondamentale, Kill All Normies di Angela Nagle.

Post-ironia a parte, Wu Ming 1 coglieva una questione avvertita da molti, anche se intuitivamente nessuno lavora su Facebook o sui social network, a parte, per esempio, i bistrattati social media manager che pagine tipo Logo Comune si divertono a sfottere.

Quello che Facebook si vende, forse, non è il pluslavoro. Ma cosa allora? Immaginiamo per un attimo che sia quello che i lacaniani e Zizek chiamano “plusgodere“.

Gli user generated content, che muovono una parte rilevante del traffico sui social media, sono prodotti nella maggior parte dei casi per puro divertimento, senza remunerazione se non i like e le condivisioni. Una remunerazione in riconoscimento tra pari.

Una caratteristica interessante degli ugc è che somigliano a una sorta di pattume che ci si lascia dietro mentre si fa qualcos’altro di puramente edonistico, come il consumo culturale di massa (o, per dirla più terra-terra, l’ozio aristocratico con cui la nostra generazione passa i pomeriggi su Facebook e Netflix come se in questo mondo non ci fosse niente di più interessante da fare).

Se accostare gli ugc a spazzatura può sembrare un po’ eccessivo, forse è il caso di prendere l’esempio dei meme.

Il meme nasce molto prima di aprire Photoshop (o Paint, per i vaporwaver più audaci). La fonte infatti è nel consumo della cultura di massa (libri, film, le colonnine di destra dei giornali online, altri meme). Per dire: i meme di “Ferretti cammina con me” non avrebbero una sola condivisione se migliaia di persone (compresi i gestori della pagina) non passassero i propri pomeriggi e le proprie serate a guardare Boris e Twin Peaks. Il meme è uno scarto del consumo culturale.

La sua circolazione è simile a una diffusione di spazzatura, del tipo particolare descritto da Slavoj Zizek nel suo saggio “Il Trash Sublime” (o meglio, “La Spazzatura Sublime”). Si riempie uno spazio assolutamente vuoto con degli scarti, incapaci di riempirlo, solo per segnalare lo spazio stesso. Il contesto fornisce il significato al segno. La caratteristica dei meme è che si tratta ovviamente di scarti culturali specifici dell’individuo memer, ma sono anche estremamente simili agli scarti degli altri utenti che però di mettersi a smanettare con photoshop non hanno voglia. Questi ultimi, in compenso, fanno comunque circolare pezzetti delle opere che consumano nelle battute tra amici davanti a uno spritz. Il meme funziona basandosi sul fatto che qualcuno dia una forma alla propria spazzatura culturale, che la platea avverta una consonanza e che riconosca in quella spazzatura anche la propria spazzatura e la faccia circolare. Il riconoscimento del contenuto e delle sue implicazioni è fondamentale. Per tornare a “Ferretti cammina con me”, un suo meme forse non funzionerebbe altrettanto bene se postato su una pagina generica in cui la fanbase non ha visto né Boris, né Twin Peaks.

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I social network e gli aggregatori, da questo punto di vista, sono paragonabili a immense discariche che lucrano vendendo cartelloni pubblicitari tra l’immondizia, mentre dei passanti si aggirano tra i rottami pensando: “Guarda quel divano mezzo mangiucchiato, ce l’ho nel salotto anch’io, tale e quale. Quel divano potrei averlo buttato io”.

Magari non sarà Spazzatura Sublime come quella che si trova esposta nei musei di arte contemporanea, dove è il contenitore a fornire la sublimità. Ma neppure si tratta di spazzatura qualsiasi. Il contenitore non è un contenitore privo di cura, incapace di fornire un contesto degno. Il retroterra in cui questi scarti sono stati prodotti è cognitivamente complesso e culturalmente vasto quanto può essere vasta la cultura di un essere umano. Una vastità non definibile necessariamente da un punto di vista accademico, ma anche semplicemente dalla lettura compulsiva e scoordinata di wikipedia e dal binge-watching di serie televisive.

Per definire la trasformazione che avviene durante la memificazione possiamo ricorrere a un concetto caro a ecologisti e designer: l’upcycling, ovvero il processo di trasformazione attraverso cui un rifiuto, grazie alla creatività, viene trasformato in un oggetto di maggior valore. (Se non avete capito cos’è l’upcycling, pensate al Kintsugi, quella bella parola giapponese che descrive l’atto di ricomporre un vaso rotto con dell’oro per farlo divenire più bello di prima). I segni, le unità più piccole che compongono i contenuti culturali, vengono ricombinati attraverso un upcycling semiotico.

Ma i meme ovviamente non sono il solo fenomeno di questa cultura dello scarto.

Un altro è la proliferazione di blog e magazine culturali che fanno alla cultura accademica la stessa cosa che i meme fanno con la cultura di massa. L’enorme quantità di individui dotati di un capitale umano immenso, ma dotati di competenze rigettate dal mercato del lavoro ha cominciato a produrre un’enorme quantità di contenuti ad alto contenuto culturale. La massa descritta da Raffaele Alberto Ventura nella sua Teoria della Classe Disagiata, ha trovato su internet la possibilità di esprimere il proprio potenziale, producendo analisi e teorie e contenitori per esse, trasformandosi in una vera e propria intellighenzia diseredata formata da ricercatori precari, aspiranti accademici declassati, colti frustrati. Il risultato è una narrazione parallela della vita intellettuale, spesso disperante e nichilista, ma anche svincolata dalle logiche burocratiche proprie della accademia.

In questo caso il riciclaggio degli scarti funziona specularmente a quello della produzione dei meme. Lo stile meno sorvegliato, l’assenza del citazionismo rigoroso delle riviste scientifiche, la trivialità esibita delle riflessioni sulla cultura pop che permeano la blogosfera dei declassati è downcycling. Dottori di ricerca che potrebbero citare a memoria le Réflexions di Turgot o le osservazioni di Bataille sulla filosofia nietzscheana, sfruttano le proprie risorse intellettuali per recensire l’ultimo film del Marvel Cinematic Universe.

Insomma, forse Wu Ming 1 si è spinto un po’ in là con la sua analisi, ma a distanza di qualche anno possiamo prendere le sue parole in considerazione senza fare i soliti commenti sarcastici, seppure con un paio di puntualizzazioni (si parva licet).

  1. I social media monetizzano l’immenso capitale di scarti, alimentando la vanità e la necessità di riconoscimento dei pari che sorge dai consumi culturali individuali. Il plusgodere è pagato letteralmente in visibilità.
  2. La possibilità di utilizzare gli scarti di quel consumo ha un effetto benefico anche per i produttori di quegli stessi beni culturali. Per soddisfare la propria voluttà di condivisione di idee è necessario essere sempre sul pezzo, essere in grado di cogliere i layer memetici del discorso culturale in grado di aprire le porte delle piattaforme più rilevanti. La cultura non è più solo cultura, ma si trasforma in uno strumento di ermeneutica di contenuti di secondo livello, per così dire metaculturali. Bisogna quindi godere di più, per produrre più plusgodere e ricevere maggiore visibilità.
  3. D’altro canto, chi della produzione di cultura fa o vorrebbe fare la propria professione, si trova in uno spazio saturato da manodopera disposta a fare lo stesso, magari con meno cognizione di causa, ma nella modalità che più di tutte è apprezzata da chi quella cultura la vende: gratis.

Alla fine dei conti, upcycling e downcycling semiotico riflettono due distorsioni tra loro speculari. Da un lato i memer spesso apostrofati come perdigiorno dalla vulgata, che si percepiscono e sono percepiti dai propri seguaci (e ormai anche da numerosi attori politici ed economici) come produttori di contenuti culturali appartenente ad una specie di Ennesima Arte. Dall’altro la classe creativa che si percepisce come produttrice di contenuti di livello inferiore alla propria formazione, ai propri consumi, al proprio stesso ceto.