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Il mondo black al cinema è rappresentato quasi sempre da un punto di vista afro-americano, ma il cinema africano nasconde pellicole attualissime che meritano di essere riscoperte. Ve ne presentiamo alcune in collaborazione con MUBI

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Ora che lo ricordo sorrido ripensando a quanto ero nervoso mentre camminavo per Point E. Dakar, perché non capivo quale genere di mondo fosse possibile senza parole inglesi. […] Ero una nullità senza gli interpreti a cui affidavo le mie domande, che mi trovassi a Bamako, Abidjan o Casablanca.
Emanuel Iduma, Lo sguardo di uno sconosciuto 

Quando si vede per la prima volta un film africano si può provare lo stesso senso di straniamento documentato da Emmanuel Iduma, scrittore nigeriano, che nel suo viaggio al di sotto dell’Equatore si sentiva uno “sconosciuto” nel suo stesso continente. Da occidentali si fa fatica, e questo sforzo è spesso accompagnato da un certo grado di disagio — è come se si sentisse il bisogno di un Virgilio che ci guidi in un territorio sconosciuto. 

Ma da dove nasce questa complessità? Nei media e nell’attivismo lo sguardo nero coincide troppo spesso con la prospettiva afro-americana. Questo, come ha sottolineato anche Reni Eddo Lodge in Why I’m No Longer Talking to White People About Race, cannibalizza tutte le prospettive alternative a quella statunitense, uniformando l’identità nera a un solo punto di vista. Così probabilmente si finisce per conoscere l’intera filmografia di Spike Lee o ci si commuove per il molto criticabile Green Book senza avere mai avuto modo di godersi il lavoro di autori africani come Djibril Diop Mambéty o Souleymane Cissé — o più banalmente i popolarissimi film di Nollywood.

È un problema strutturale, e non si limita al solo accesso alle risorse. Nelle accademie il cosiddetto world cinema — definizione che pecca di un eurocentrismo evidente — sembra un argomento di serie B, da trattare rapidamente senza approfondirne gli aspetti storico-politici e identitari. Negli ultimi anni le cinematografie asiatiche sembrano finalmente essere riuscite ad allargare il proprio bacino d’utenza, ma lo stesso non si può dire per l’Africa, che da sempre ha dovuto scontare il prezzo dell’assenza di un’industria e di capitali a sostenerla. 

Tra le tante figure del cinema africano che andrebbero recuperate per il grande pubblico c’è sicuramente Ousmane Sembène (1923-2007), regista, scrittore e “padre del cinema africano” che proprio negli ultimi anni, grazie anche al restauro di alcune opere e per merito anche alla popolarità su Instagram di alcuni fotogrammi tratti dai suoi film, sembra essere al centro di un rinnovato interesse. I film cardine che forse meglio di altri stanno dando il via a questa riscoperta sono due: La Nera di… (1966) e Il Vaglia (1968).

Il primo racconta la storia della giovane Diouana che coglie l’allettante occasione di scappare da Dakar per trasferirsi in Costa Azzurra lavorando come bambinaia presso una famiglia francese. Il tema del viaggio, declinato come un’avventura tragica, in realtà è un ammonimento verso coloro che vagheggiano in modo eccessivo i vantaggi materialistici della società occidentale. Il film, che ha una fotografia magistrale e che non ha nulla da invidiare ai celebratissimi film della Nouvelle Vague o al cinema iper-intellettuale di Antonioni, colpisce profondamente lo spettatore ed entra diretto nella storia del cinema anche per essere uno dei primi film in cui viene mostrato il corpo nudo (e senza vita) di una donna nera.

La Nera di…

La signora non mi sgriderà mai più! Non mi dirà mai più: “Diouana prepara il caffè.” Mai più: “Diouana prepara il riso.” Mai più: “Diouana togliti le scarpe.” Mai più: “Diouana lava la camicia!” Mai più: “Diouana sei pigra.” Non sarò mai più una schiava.

Le tematiche de La nera di… sembrano molto vicine a noi, e l’effetto di straniamento è molto mitigato: non solo per i luoghi in cui è ambientato il film, ma anche perché buona parte del cinema statunitense ha affrontato le tematiche razziali riducendole al topos dello scontro-incontro tra bianchi e neri, declinato nei in termini di padrone/subordinato. Ne Il Vaglia (1968) Sembène, da sempre vicino al pensiero marxista, usa la macchina da presa esclusivamente per raccontare la vita tra le strade polverose della Dakar post indipendenza, dipingendo un affresco talvolta sprezzante e satirico della società senegalese e riprendendo così delle tematiche care alla négritude.

È interessante notare che il film ha un valore anche sul piano politico: si tratta infatti del primo lungometraggio girato interamente in lingua Wolof. L’amministrazione coloniale aveva impedito ai nativi di accedere al cinema, ma Sembène era fortemente convinto che, visto il basso tasso di alfabetizzazione in Senegal, il cinema potesse essere un mezzo per istruire i cittadini a cui era preclusa buona parte della cultura. 

L’Africa del passato non tornerà più: come comprendere una nuova Africa? Come parlare a tutti gli africani? Le lingue limitano la comprensione. Il cinema è l’arte che ci è più vicina: passiamo dall’oralità all’immagine… Il cinema dovrebbe essere la scuola serale dei giovani africani.
— Ousmane Sembène

In questo film — tratto da un breve romanzo scritto proprio dal regista-scrittore — siamo lontani dai palazzoni lussuosi abitati da bianchi della pellicola precedente. Qui la povertà regna sovrana, in una società che sembra essere fondata su piccole e grandi meschinità e avarizie. Ibrahima Dieng, il protagonista, è un uomo senza lavoro, analfabeta, che deve in qualche modo sbarcare il lunario per mantenere due mogli e sette figli. Un giorno però a Ibrahima arriva da Parigi un vaglia 25.000 franchi del nipote Abdou. Dapprima l’uomo tenta di mantenere segreto questo inaspettato dono, ma ben presto la voce si diffonde: una lunga serie di questuanti bussa alla sua porta per avere dei prestiti ancora prima che abbia effettivamente incassato i soldi. In una sorta di tragico viaggio dell’eroe, Ibrahima si reca all’ufficio postale per riscuotere la somma — ma qui incominciano i suoi vagabondaggi, che lo lasceranno inesorabilmente travolto dalla burocrazia e dal disfacimento morale che sembra non risparmiare nessuno strato della società. 

Il vaglia

Sembène non ci racconta la novella degli ultimi come i più puri e capaci solo di slanci caritatevoli, bensì mostra come il denaro riesca nell’intento di piegare anche la società tradizionale dopo anni di imbarbarimento coloniale. Il sistema capitalistico e la lotta di classe — ben rappresentati dal rampante nipote — hanno corrotto tutto, persino i rapporti familiari, che un tempo erano il terreno su cui si fondavano i principi della collettività. Il capitale materiale vince crudelmente sul capitale sociale. Ne Il vaglia i personaggi hanno uno scopo allegorico. Anche quando vengono mostrati nei loro lati peggiori dimostrano di avere una certa profondità psicologica, perfino quando il regista senegalese sembra giocare a propria volta con una certa rappresentazione stereotipata. Non è un caso che Ibrahima, protagonista indolente, sul finale rappresenti il proprio stesso paese, portatore di un ammonimento che esplode violentemente:

“A dirti la verità, l’onestà è diventata un reato in questo paese. Ed è per questo che diventerò un lupo tra i lupi! Anche io diventerò un ladro e un bugiardo.” 

Di conseguenza la poetica del film deve essere necessariamente inquadrata in un certo orizzonte ideologico che non risparmia critiche alll’identità africana postcoloniale. In questo senso Diouana e Ibrahima sono due facce di una stessa medaglia. Il vaglia così come La nera di… lasciano aperti parecchi interrogativi nei loro tragici finali, e invitano lo spettatore a porsi domande che a quasi sessant’anni di distanza sembrano ancora faticare a trovare una risposta. 

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in copertina, fotogramma via FCAT, CC BY-SA 2.0

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