Quella che era stata una delle costole comunicative della Guerra fredda ritorna al centro delle dinamiche mediatiche: la space propaganda, oggi più viva che mai grazie al rispolverato sogno dell’uomo come conquistatore di pianeti. Per comprendere cosa si cela dietro alle sempre più invadenti strizzate d’occhio verso la colonizzazione planetaria da parte della cultura popolare, bisogna guardare al passato, a quella che a tutti gli effetti fu l’unica, forzata, golden age della corsa allo spazio.
Durante la Seconda guerra mondiale tutte le nazioni in campo sfruttavano al massimo i mezzi di comunicazione allora a disposizione — la radio aveva esteso la sua portata, il cinema aveva ampliato i suoi linguaggi e la televisione muoveva i primi passi verso una diffusione di massa. Stremate e logorate da sei anni di guerra, le due ideologie sopravvissute al conflitto mondiale valutavano lo scontro armato diretto come extrema ratio per l’imposizione di Capitalismo o Comunismo. Ma lo scontro finisce per assumere ben presto delle dinamiche fredde, basate sulla forza comunicativa e sull’uso di armi mediatiche.
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Si fa subito chiaro che uno dei punti in comune tra l’american dream e la falce-martello è lo Spazio, o meglio la conquista dello Spazio. Per entrambe le nazioni infatti la space race assume le sembianze non solo di una prova di forza, ma di una vera contesa colonialista, in cui chi è in grado di mettere in campo non solo il maggior numero di mezzi, ma le migliori menti e le migliori personalità, dimostrerà al resto del mondo che sì, chi seguirà quello stile di vita potrà avere tutto — anche la Luna. I soldati in prima linea in questa guerra comunicativa sono i politici, che non solo devono spronare le industrie di settore per alimentare economicamente il sogno, ma anche tenerne vivo nella popolazione l’immaginario.
Se gli americani adottano una comunicazione dall’alto – proveniente direttamente dal Presidente degli Stati Uniti – la Russia dal canto suo oppone una comunicazione dal basso, popolare. Yuri Gagarin, primo uomo a volare nello spazio, acquista durante il periodo della Guerra fredda un’aura leggendaria, che gli permette di diventare il simbolo più limpido e internazionale del comunismo — tanto che il suo successo raggiunge le sponde statunitensi e obbliga Kennedy a vietare, per la troppa popolarità, l’arrivo del cosmonauta su suolo americano.
La space propaganda è dunque un duello mediatico in cui chiunque può diventare un simbolo e ogni immagine una promessa.
Ancora prima di presidenti e cosmonauti, sono le immagini delle riviste a colmare l’immaginazione popolare sullo spazio. Negli anni ‘40 un artista californiano di nome Chesley Bonestell diventa uno dei pionieri della space art (in seguito soprannominato “Father of Modern Space Art”) pubblicando su Life una serie di dipinti che verranno poi raccolti nel libro The Conquest of Space — tra cui il celebre “Saturn as Seen From Titan”.
La Russia invece, che oltre ad aver raggiunto per prima lo Spazio l’aveva già esplorato, per così dire, attraverso la letteratura fantascientifica, non sente il bisogno di dare un senso di scoperta alle proprie opere, ma conferisce alla produzione di space art un taglio più aggressivo — a svettare su poster, cover e francobolli è infatti il logo della CCCP. Mentre l’America voleva la Luna, la Russia aspirava già all’esplorazione dello spazio profondo.
Sono i nomi di due studiosi tedeschi però a apparire come massimi esponenti della space propaganda di metà secolo: Willy Otto Oskar Ley e Wernher von Braun — e per riassumere le loro vite ci vorrebbe come minimo una serie tv di Netflix.
Per dare un’idea dell’influenza che i due autori hanno avuto sull’immaginario collettivo basti pensare che Willy Ley – tedesco naturalizzato americano – collaborò con il regista austriaco Fritz Lang per la realizzazione del film Die Frau im Mond (Woman in the Moon), prima pellicola a rappresentare una versione realistica del viaggio nello spazio. Wernher von Braun, a differenza del collega, fu una figura molto più ambigua: membro delle SS durante la Seconda guerra mondiale e responsabile del progetto di sviluppo dei razzi nazisti, arresosi alle truppe alleate continuò il suo lavoro, per l’esercito statunitense prima e per la Nasa poi, contribuendo alla costruzione della navicella Apollo. Wernher von Braun fu uno dei primi e strenui sostenitori del viaggio verso Marte.
I due credevano talmente tanto alla divulgazione scientifica come motore per la ricerca che nel 1954 collaborarono con Walt Disney alla puntata di Disneyland – un programma che andava in onda sulla ABC – intitolata “Man in Space”.
https://www.youtube.com/watch?v=ZWJrvT9sTPk
Col procedere del conflitto silenzioso, si fa chiaro che la corsa alla spazio è un costosissimo campo di battaglia in cui i problemi doppiano i successi. L’atterraggio sulla Luna da parte degli Stati Uniti segna la definitiva sconfitta della Russia in campo spaziale e con essa la lenta conclusione delle rivalità scientifiche. Ultima stretta di mano a fine gara è l’Apollo-Soyuz Test Project nel 1975, in cui i governi dei due Paesi – allora sotto Nixon e Brezhnev – collaborano per portare nello spazio una squadra russo-americana di astronauti.
Come i rapporti tra Stati, col passare degli anni anche la space propaganda si fa più distesa e meno aggressiva.
La canzone degli Elo è una dedica alla stazione spaziale americana Skylab.
La caduta del muro e la fine dell’URSS segnano anche la fine della propaganda spaziale sovietica: la Russia scompare dal dibattito scientifico dopo aver contribuito a uno dei più grandi primati dell’essere umano. Non va meglio all’America che, privata del suo rivale, è costretta a rivedere il proprio approccio comunicativo. Lo Spazio non è più il simbolo di una sfida ideologica ed economica, diventa piuttosto il sinonimo della virilità nazionale — film come The Right Stuff e SpaceCamp applicano agli stereotipi di fine millennio il lascito della Guerra fredda, creando le immagini valide ancora oggi dell’astronauta americano senza macchia e senza paura.
Sopita da anni, la space propaganda viene rispolverata oggi per un altro, ambizioso, obiettivo: Marte.
Il desiderio di andare sul Pianeta Rosso ha scatenato recentemente una nuova ondata di febbre spaziale, per cui sembra più importante che mai per il genere umano raggiungere nuovi confini extraplanetari. Non più quindi una lotta politica, bensì una sfida tra capitali, i cui protagonisti sono i grandi tycoon dell’industria mondiale — da Elon Musk a Jeff Bezos, dalla Boeing alla Lockheed-Martin. In questo senso la lettura più adatta è il velo transumanista che aleggia sopra le dinamiche della seconda space race: l’elevazione dell’essere umano a una nuova natura attraverso la colonizzazione spaziale, a partire da Marte.
Per progetti come SpaceX o Blue Origin però il capitale non basta, bisogna alimentare il desiderio in grado di muovere menti e investimenti. Allora ecco che tutto si tinge di rosso: dal cinema di The Martian alla televisione di Mars. Non è difficile intravedere un preciso intento, al di là dell’intrattenimento, per cui molti prodotti cinematografici, televisivi e radiofonici sfruttano lo Spazio come terreno di gioco — la narrativa spaziale diventa direttamente e indirettamente un polo di attrazione opposto ad un pianeta Terra che ci va sempre più stretto (le guerre, i populismi, il climate change… per citarne un paio).
E se a un livello più diffuso il discorso è affrontato indirettamente attraverso film, libri o serie tv, all’interno del settore assistiamo a vere e proprie campagne di reclutamento per i nuovi padri pellegrini.
La Nasa ha avviato un portale chiamato Mars Exploration in cui è possibile esplorare il Pianeta Rosso attraverso le varie sezioni all about mars, program & missions e multimedia. Ma anche una serie di poster che immaginano viaggi turistici verso mete esotiche come Jupiter o Kepler-16b.
Nel frattempo, gli insegnamenti di Steve Jobs vengono ora applicati all’immaginario spaziale.
L’obiettivo sembra dunque quello di mantenere intatta la speranza, alimentandola con qualsiasi tipo di risibile escamotage — dalla vacanza sul pianeta rosso di Leonardo Di Caprio all’emirato interplanetario. Non è dunque importante se Elon Musk sia o meno un alieno, l’importante è che se ne parli. Ognuna di queste piccole recite mediatiche si aggiunge allo schema semiotico della possibilità: se è possibile immaginarsi su Marte, allora sarà anche possibile andarci e di conseguenza abitarci. Così via fino alla sua concretizzazione propagandistica.
La space race di metà Novecento è presente più che mai nella nostra quotidianità, sotto altre vesti e con altri obiettivi, ma sfruttando gli stessi schemi che l’avevano resa uno dei dibattiti culturali più importanti della Guerra fredda. Se sopravviverà alle sue stesse ambizioni, la nuova ondata di interesse aerospaziale diventerà la vera rivoluzione del nuovo millennio. Se invece le sue ali bruceranno, a far compagnia ai poster di propaganda russa si aggiungeranno quelli della Nasa.
In copertina: Nadia Sgaramella è una giovane grafica e illustratrice che ha abbracciato la sua passione facendone un lavoro.
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