La denuncia dei 600 professori dell’analfabetismo dilagante tra gli studenti non coglie il punto delle sfide future della scuola nel nostro paese.
Ha fatto discutere per qualche giorno l’appello rivolto al governo da un gruppo di circa 600 accademici, che ha risollevato un allarme — a dire la verità — tutt’altro che nuovo: quello della scarsa competenza linguistica degli studenti, anche ai gradini più alti degli studi. Non sono riuscito a trovare online il testo completo dell’appello, ma i giornali ne hanno dato una sintesi efficace: errori da terza elementare nelle tesi di laurea, banali strafalcioni di ortografia, analisi logica sconosciuta, e così via.
Quest’ultimo caso va a sommarsi ai dati — variabili e spesso incoerenti, ma non per questo meno allarmanti — che ciclicamente vengono diffusi sull’analfabetismo funzionale, ossia l’incapacità di comprendere un testo complesso, problema che colpisce non soltanto gli studenti, ma una buona percentuale dell’intera popolazione. L’argomento è pop: “analfabeta funzionale” è diventato un insulto abbastanza corrente, esistono pagine Facebook dedicate, e ne ha denunciato la pericolosità perfino Beppe Grillo sul suo blog.
Anche la grande psicosi su post-verità e notizie false può essere considerata una branca di questo tema principale: per riconoscere una fonte attendibile, distinguere tra verosimiglianza (non diciamo verità) e aperta menzogna, servono più o meno le stesse capacità cognitive utili a comprendere il senso di un articolo di giornale o i termini di un contratto. E infatti, anche le fake news sono diventate un comodo capo d’accusa omnidirezionale. Ma il problema è serio, e trattarlo seguendo soltanto l’onda degli allarmismi a breve scadenza — come possono essere quelli sulla salubrità o meno del caffè — rischia di annacquare un dibattito pubblico necessario.
Un aspetto che non è stato adeguatamente sottolineato è come la questione vada oltre la grammatica: è il sintomo di un travaglio generazionale, il passaggio delle leve del controllo — della società, del potere — dalle mani di un blocco anagrafico (diciamo così) al successivo, separato dal primo da uno spartiacque fondamentale: la rivoluzione informatica, che acuisce, se possibile, la fisiologica mutua incomprensione tra generazioni. Quando si legge che seicento rispettabili accademici — di età media presumibilmente elevata — si rivolgono al governo perché notano che gli studenti non sanno più l’italiano, bisogna leggere, oltre la lettera, il senso di terrore per l’inevitabile e prossima detronizzazione, per mano di una generazione che non solo non viene percepita all’altezza, ma che risulta del tutto incomprensibile, a partire dal linguaggio. È un po’ come chiedersi, prosaicamente, che fine faremo.
Tutto ciò senza entrare nel merito della fondatezza di queste preoccupazioni. D’altra parte, i latini cominciarono a lamentare la decadenza della cultura almeno dal III secolo a.C., e poi per molti secoli furono proprio loro, i classici — che ancora danno il nome al liceo considerato più prestigioso — la misura dell’irrimediabile decadimento culturale. Eppure la cultura ha sempre preso una sua strada, capricciosamente. Esagerando: 600 accademici dei tempi di Dante avrebbero potuto lamentare la declinante competenza nel latino degli studenti dell’epoca. Oggi, conviene accettare che un laureato in Filologia classica non abbia la stessa padronanza della materia che si poteva trovare facilmente in un omologo di fine Ottocento — ma tante cose sono cambiate, nel frattempo. Tanto per dirne una, l’istruzione è stata profondamente democratizzata, e l’analfabetizzazione — non quella funzionale — pressoché sconfitta.
Questo non significa che gli allarmi, in qualsiasi tempo, siano stati ingiustificati. Né che la cultura, in fondo, sia tutta equivalente, in ogni epoca e generazione. Ma bisogna riconoscere che questa stessa cultura — che non si limita ovviamente alla competenza linguistica e che non è certo un concetto semplice da definire — è per gran parte indipendente dagli sforzi normativi delle istituzioni tradizionali, specialmente in un’era, come questa, dominata dalla pervasività globale delle leggi di mercato, in cui la più grande rivoluzione culturale coincide con quella tecnologica, eterodiretta in tutto il mondo da una manciata di aziende private. È facile, insomma, che Facebook incida sulla cultura della prossima generazione più di quanto possa fare qualsiasi riforma scolastica.
I cambiamenti economici e tecnologici della società corrono più rapidi dei cambiamenti istituzionali. Eppure la scuola resta il primo e il più stabile centro di irraggiamento culturale, ed è alla scuola che si sono rivolti, infatti, i 600 accademici. La risposta pronta e abbastanza determinata della Ministra Fedeli ha individuato nelle medie l’anello debole della catena scolastica italiana — tre anni di formazione troppo indefiniti in un’età troppo delicata — promettendone una riforma. Ipotecata dalla precarietà dell’attuale governo, al pari di tutti i suoi predecessori a partire almeno dal governo Monti, Valeria Fedeli si trova sulle spalle l’ingombrante eredità della Buona Scuola, e contemporaneamente è chiamata a gestire una transizione epocale troppo complessa perché possa farsene carico a colpo di qualche decreto attuativo.
Oltre ai propositi di riforma della scuola media, Fedeli ha annunciato entro la fine del mese la pubblicazione di un “avviso pubblico per le competenze di base,” e si è impegnata a promuovere la lettura extra-scolastica e il ritorno dei giornali in classe. Degli 830 milioni del Piano Operativo Nazionale per la scuola, la voce più consistente — 180 milioni — sarà investita proprio nel rafforzamento delle competenze di base (non solo linguistiche), come annunciato dal Miur già a fine gennaio.
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Un altro capitolo di spesa, fondamentale, è quello intitolato “Cittadinanza e creatività digitale,” dedicato a “formare le studentesse e gli studenti a un uso consapevole della rete” — una necessità irrinunciabile, ormai, quanto la prima alfabetizzazione. La tecnologia resta infatti il convitato di pietra di tutto il discorso: promossa negli anni passati nella scuola con poca lungimiranza e un atteggiamento che faceva passare in primo piano la dotazione tecnologica rispetto a un’educazione al suo utilizzo, oggi si presenta come la principale fonte di discrasia tra una scuola ancora novecentesca e una cultura sempre più virtuale. Un dato che in Italia sembra essere pervicacemente ignorato: per dare un solo esempio dello scarso peso della cultura (scolastica, letteraria, enciclopedica) italiana online, basti pensare che Treccani collabora con Studenti.it. C’è un universo ancora da costruire.
Nel frattempo, come reagire alla distrazione epidemica, primo effetto collaterale dell’iper-connessione e indiziato di rilievo tra gli agenti corrosivi della competenza letteraria degli studenti? Come combinare la disciplina — necessaria a qualsiasi studio — e il riconoscimento inevitabile di una cultura non più incentrata sul testo stampato, ma — per dirla con un termine invecchiato precocemente — sull’ipertesto? E, allo stesso tempo, salvare il valore fondamentale dell’istituzione scolastica: l’inclusione sociale.
Sono queste le domande che si devono porre i legislatori, i dirigenti scolastici, gli insegnanti, e anche i professori universitari preoccupati dal futuro. Sfide non da poco, ma che in certa misura sarà il tempo stesso a dipanare, quando gli studenti di oggi — anche quelli poco competenti in italiano — formeranno la classe di insegnanti di domani.
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