Abbiamo incontrato Be a Bear per parlare del suo album d’esordio Push-e-Bah, di spiritualità amerindiana, di Thom Yorke e di come si produce un disco con l’iPhone.
In collaborazione con Il Blog di MM.
Filippo Zironi, in arte Be a Bear, è l’ideatore di una musica fondata sulla semplicità. Push-e-Bah, il suo album d’esordio uscito pochi mesi fa per La Fame Dischi, ha già suscitato l’interesse della stampa nazionale. INRI ha appena inserito Don’t Say No, il primo singolo estratto dall’album, nella playlist Spotify “Il nuovo rumore di Bologna.” Push-e-Bah è un album di elettronica dal respiro internazionale, è stato interamente realizzato con un iPhone e viene accompagnato nei live da uno spettacolo atipico e coinvolgente. Quando incontriamo Be a Bear a Milano, al Rock’n’Roll, i Sum 41 se ne sono appena andati e noi ci fermiamo a fare due chiacchiere prima dell’inizio del concerto.Domanda classica e inevitabile, come nasce Be a Bear?
In realtà è nato tutto quasi per scherzo, come un gioco, un paio di anni fa. Non avevo più nessuno con cui suonare dopo tanti anni che avevo suonato in una band però ho sempre avuto tante idee, così, un po’ da parte. Allora ho iniziato a pensare a come dargli forma. La mia idea era di fare qualcosa di originale e musicalmente diverso, perché in realtà io nasco come chitarrista…
Ho letto che vieni dallo Ska-Punk.
Infatti, tutto un altro mondo.
Quindi cosa ti ha portato verso l’elettronica?
Sicuramente tanta curiosità e passione. In realtà l’ho sempre ascoltata. Per me l’elettronica è quella degli anni ’90, i Chemical Brothers, qualcosa di Björk. Facevo già delle cosette parallelamente al punk, ma più che altro ci giocavo, con l’elettronica. Poi sono partito per il Canada e da qui nasce anche il collegamento con l’immagine dell’orso. Là ho conosciuto la realtà degli indiani d’America perché ho avuto la fortuna di essere ospite di una signora che appartiene alla tribù dei Moak. Ho trascorso due settimane a contatto con loro e sicuramente ho imparato tanto. Insomma da questa esperienza è maturata l’idea dell’orso. Per i Moak, così come per tutte le tribù indiane, è un animale sacro e mi piaceva sia l’aspetto spirituale che l’ambivalenza tra bene e male, buono e cattivo, che viene spesso associata all’orso. Dal punto di vista musicale ho improvvisato, perché non venivo da quel mondo lì. Però fin da subito avevo in mente di fare una cosa puramente strumentale.
Mi chiedevo infatti da dove arrivasse la forza evocativa dell’album, che sembra quasi una colonna sonora e richiama una serie di immagini suggestive e atmosfere esotiche.
Nasce tutto da quel viaggio. L’idea poi è quella di riuscire a trasmettere emozioni che possano nascere da una melodia abbinata a delle immagini. All’interno del disco le canzoni possono far sorridere ma anche riflettere. L’intenzione è quella di far passare un messaggio, di racchiudere nell’album, perché no, anche una critica sociale ma, ad esempio, anche l’amore per la natura o banalmente di riuscire a far sorridere e porre l’attenzione sulle cose semplici.
A proposito di semplicità, come si fa a produrre un album con un iPhone?
In realtà l’iPhone è praticamente un computer. Io ci faccio tutto, dalla musica alle grafiche ai video. È comodo, ce l’ho sempre in tasca, magari sono in macchina e canticchio una canzone, butto giù un’idea. È anche economico, nel senso, l’iPhone in sé non lo è ma una volta che ce l’hai non devi comprare mille synth, strumentazioni, pad.
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Tra i riferimenti musicali citi Damon Albarn, Radiohead, OSC2X e molti altri. Quale di questi artisti pensi ti abbia influenzato maggiormente?
Te ne dico due. Uno è Thom Yorke, che ho visto qui a Milano con gli Atoms For Peace e mi ha colpito moltissimo perchè ho visto per la prima volta l’elettronica suonata dal vivo. L’altro è sicuramente Damon Albarn, d’altronde anche lui ha fatto un album con l’iPad…
La connessione quindi è quasi scontata. Sbirciando sui social ho capito che i tuoi non sono dei concerti classici. Come racconteresti un tuo live a un nostro lettore?
Diciamo che a un mio concerto non so se uno trova quello che si aspetta perché magari uno pensa al dj tradizionale che al massimo suona qualche pad. Il concerto è una cosa strana, io lo chiamo visual-live e l’ho un po’ costruito ad hoc perché inizialmente non avevo in progetto di fare spettacoli dal vivo. Si concentra molto sui visual che vengono proiettati durante lo spettacolo e in generale rappresentano una parte molto importante della mia musica. Quello che succede in un live è un momento un po’ più teatrale all’inizio, dove la mia idea è anche quella di scioccare il pubblico. Indosso la maschera, leggo un libro, bevo un caffè sul palco. Poi inizia una parte più attiva dove suono una chitarrina, che ho costruito io improvvisandomi liutaio, e qualche gioco rubato a mia figlia. Durante questo Polar Tour suonerò anche tre o quattro pezzi nuovi.
Quindi stai già lavorando al nuovo disco?
Sì e l’idea è di farlo uscire a breve. Devo solo ritoccare delle cose ma è più o meno pronto. Sarà un po’ più cantato, forse leggermente più ballabile come ritmi.
Quando potremo sentirlo?
Forse prima dell’estate ma più probabilmente appena dopo. Vi anticipo in esclusiva che una canzone potrebbe uscire già tra un mesetto.
Nel frattempo dove possiamo venirti a sentire?
Settimana prossima sarò al sud, l’1 febbraio a Rende, il 2 a Palermo e così via. Poi in primavera partirà un altro tour, ci sono già delle date più o meno fissate, tornerò anche a Milano.
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