Ci siamo seduti a tavola con Pier, Simone e Fabrizio (Carlo assente giustificato) – in arte La Buoncostume – per parlare della loro ultima fatica: Età dell’oro, serie tv in 8 godibilissime puntate disponibili in streaming sul portale di DPlay.


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Quanto Klondike c’è ne L’età d’oro? Ovvero, quando avete capito che sarebbe stato qualcos’altro rispetto ai vostri lavori precedenti?

Pier: È stata una decisione presa insieme a Discovery Italia (la realtà alle spalle della produzione della serie n.d.r.). Si sono dimostrati interessati a produrre una seconda stagione/reboot/remake di Klondike e abbiamo discusso insieme di quale forma avrebbe potuto avere. Il punto di partenza era che non avremmo potuto usare il titolo Klondike perché la prima fiction prodotta da Discovery negli Stati Uniti si chiamava proprio Klondike

p1011159-copiaMagari con ambientazioni storiche e tutto il resto.

Pier: Sì, il Klondike quello vero. Ma a prescindere dal titolo, le cose che volevamo noi e quelle che voleva Discovery erano più o meno le stesse, rendere cioè il prodotto un po’ più simile a una serie vera. Klondike aveva una costruzione antologica…
Fabrizio: Sì, Klondike era puramente verticale, ogni puntata aveva un tema, non ci interessava collegare i fili dei vari personaggi tra un episodio e l’altro. Invece con Età dell’oro volevamo fare qualcosa di più orizzontale.

Personalmente ho percepito una narrazione molto più aperta rispetto a Klondike.

Fabrizio: Sì, tra i tanti motivi, era il tipo di narrazione su cui abbiamo lavorato meno fino a oggi, e quindi ne avevamo molta voglia. Noi veniamo da sketch comedies come Camera Café o Il Candidato, dove hai micro-storie autoconclusive, e idem Klondike, in cui gli episodi più che su storie erano basati su dei temi, delle tesi…
Simone: E se eri interessato alla tesi ti pigliavi bene, altrimenti ciao.
Fabrizio: Avevamo voglia di una bella serie comedy con un mondo persistente e dei personaggi da esplorare.
Simone: Anche perché la workplace comedy negli anni l’abbiamo adeguatamente esplorata, quindi era naturale cambiare, andare a capire cosa c’è dietro la comicità da ufficio.

Parlando con Pier prima dell’intervista facevo un paragone con la serie americana Mad Men, un po’ scherzando un po’ no. Cioè, si percepisce molto la volontà di esplorare il contesto in cui i personaggi delle vostre storie si muovono.

Fabrizio: Come avrai visto, Età dell’oro a volte è scomposta, piena di roba, e questo deriva dalla frustrazione che ci portiamo dietro: il sistema ti dà poche occasioni, e quando le abbiamo cerchiamo di metterci dentro tutto. Se nel nostro percorso lavorativo avessimo potuto lavorare a diversi tipi di prodotto non avremmo avuto la necessità di mettere tutte le cose che ci piacciono in un unico luogo. Alla base delle scelte di Età dell’oro c’è questa voglia di spaziare, che spesso si traduce in una certa famelicità.

Un po’ come la prima puntata de Età dell’oro in cui il personaggio di Carlo dice “io sono pieno di idee.”
Ma tornando al rapporto con Discovery, vi hanno proposto subito di adattare la serie allo streaming online e quindi al
binge watching o è stata una scelta in itinere?

Simone: Sì, sono partiti subito con questa idea anche perché potenze come Netflix, in grado di produrre e distribuire serie come Stranger Things che diventano subito fenomeno di massa, hanno dimostrato che l’approccio giusto è ormai quello.

E mi sembra sia stata una scelta vincente anche per come avete deciso di strutturare la narrazione della storia — sì, tante cose tutte insieme, ma viste in maniera continuativa assumono omogeneità e coerenza. Com’è stato scrivere seguendo questo (nuovo) modello?

Pier: In parte è più difficile perché la serie vive su più livelli, sia narrativi sia tematici, ma l’elemento orizzontale ti viene incontro nell’organizzare le storie, nel giocare con i movimenti narrativi. Se hai un’idea per una scena, magari iconica sul mondo del lavoro, hai più libertà nel piazzarla qui o là.
Simone: In realtà fare il paragone fra le due serie è impossibile: Klondike è stato fatto nel corso di un anno con vari ritmi di lavoro, mentre Età dell’oro ha avuto un percorso produttivo classico.
Fabrizio: Tra l’altro, ora che ci penso, il passaggio a un’altra modalità produttiva è un classico passaggio dove la gente come noi, che arriva da sistemi indipendenti, di solito si schianta male contro un muro. Da una parte hai il lavoro su Klondike fatto con estrema calma, mentre dall’altra hai Età dell’oro con un meccanismo produttivo tradizionale. E da un meccanismo produttivo tradizionale spesso ne esce paradossalmente un risultato più povero rispetto a quello realizzato in maniera indipendente, in libertà. Quindi il fatto di essere riusciti a salvarci da quella roba, e non era per niente scontato, per me è una gran cosa.

Nell’intervista rilasciata all’inizio di quest’anno a Prismo dite di essere alla ricerca di un’identità di gruppo. Ce l’avete fatta con Età dell’oro?

Fabrizio: Diciamo che il dibattito è ancora aperto.
Simone: Anche perché ci sono cose che sono al di fuori della nostra portata. Senza fare discorsi pessimisti, ma se la mia identità passa per generi e budget a cui non potrò mai accedere la cosa si fa complicata. Banalmente, l’unico film di quest’anno che è piaciuto a tutti è Mad Max, però mi sembra difficile che un domani ci trasferiamo nel deserto a girare con delle macchine arrugginite. Età dell’oro è più vicino alle nostre storie personali che all’identità della Buoncostume.

Sempre in riferimento all’intervista, voi avete detto che il vostro obiettivo dopo Klondike era quello di produrre una veraserie tv, ed ecco L’età dell’oro. Il passaggio successivo…

Simone: Er cimena.
Pier: O anche una serie tv ancora più vera [ridendo].

Quindi non vi spaventa l’idea di approdare sul grande schermo.

Simone: Diciamo che per nostra natura siamo estremamente prudenti nell’invadere un territorio alla volta e accumulare carrarmatini. Per dire, a proposito del cambiamento tra Klondike e Età dell’oro, tra noi ci sono state infinite discussioni su ogni singolo aspetto formale, quindi diciamo che quando sarà il momento di fare un ulteriore passaggio andremo in panico per mesi ma l’unico vero pericolo sarà un eccesso di coscienza.
Pier: La nostra solita analysis paralysis…

A proposito di coscienza, con Età dell’oro, sembra che vi siate un po’ lasciati alle spalle la Milano di Klondike.

Insieme: E questo è molto triste.
Pier: Purtroppo ci siamo resi conto che la modalità produttiva non ci permetteva di cercare l’inquadratura giusta di quel quartiere o quel paesaggio urbano e, a quel punto, girare un’inquadratura mediocre o banale… anche no.
Simone: In Klondike era possibile per Pier girare una settimana a tempo perso, senza togliere tempo ad altri lavori, cercando lo scorcio perfetto e andando poi da solo con la 5D a riprendere. Mentre con il cambio di modalità dovevi fare tutto entro il giorno dopo, senza poter inquadrare un tram o chiedendo permessi per il tal monumento storico… e alla fine il risultato è che Milano non c’è perché non avevamo il tempo per riprenderla come si deve.
Pier: Cioè: Milano c’è, ma nella misura in cui la storia è ambientata in questa città, e quindi intravedi la città da piccoli scorci, fondi… diciamo che ci sei dentro.

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Mi è sembrata comunque una scelta vincente ai fini della storia.

Fabrizio: Volevamo comunque andare dove siamo andati, montagna e Camogli, ma noi i cazzo di tram volevamo inquadrarli. Questa cosa purtroppo per vari motivi non è stata possibile, e alla fine rimane una cosa un po’ frustrante.
Pier: Bisogna anche dire che abbiamo lavorato con una produzione bravissima, che ha dovuto lavorare in tempi stretti e con un budget molto limitato. In scrittura uno dice “andiamo in montagna, andiamo a Roma, andiamo a Camogli a girare nel forno mentre fanno le focacce”. Scriverlo è facile, poi bisogna farlo, realizzarlo, e la nostra produzione è riuscita a fare più o meno qualsiasi cosa avevamo in mente – il che è abbastanza incredibile, dati i paletti che avevamo.
Fabrizio: Scritto in tre settimane, girato in un mese, montato in un mese…

Ma a proposito di ruoli, chi fa cosa nella Buoncostume?

Fabrizio: Ovviamente cambia da progetto a progetto. Tutti scriviamo e poi di volta in volta cambiano le configurazioni interne.
Pier: Dal punto di vista della regia ne parliamo sempre un po’ prima. Ne Età dell’oro in particolare io ho fatto un po’ più da regista, Simo alla produzione…
Simone: Anche perché una volta cominciato il set quando dicevamo possiamo avere venti minuti per parlarne tra di noi e la gente ci guardava come per dire ma che cazzo dite non abbiamo tempo dobbiamo andare avanti.
Fabrizio: Tutto ciò è stato possibile anche perché noi facevamo da sponda produttiva, se c’è un attore da cercare ci si mette tutti insieme e lo si trova. Insomma, te la porti a casa anche in questo modo, facendo esplodere un po’ i confini fra i ruoli tradizionali. Non si dice io faccio solo l’assistente alla regia che va solo a chiamare l’attore in camerino, anche perché il camerino non c’è…

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Sempre rimanendo in tema di ruoli, nel finale [SPOILER] ai due protagonisti viene fatta questa domanda: «voi siete finti, o siete veri?». Questa frase mi è sembrata un po’ la chiave di lettura di tutta la serie.

Fabrizio: I personaggi fanno un gran parlarsi addosso, ma hanno un livello di autocoscienza prossimo allo zero, non si pongono mai una domanda reale, chiacchierano continuamente.
Pier: Ci sono momenti in cui sono inconsapevolmente consapevoli di quello che stanno facendo, cioè sentono l’importanza del momento e quindi diventano un po’ più reali e veri.
Fabrizio: Per me il miglior inquadramento teorico è quello basato sui generi. È così che, secondo me, abbiamo ragionato. Dico secondo me perché alla fine discutiamo delle singole scene, ma come impostazione generale diciamo solo forse più comico, forse più surreale, forse più realistico.
Simone: Anche perché alla fine hai esigenze espressive diverse. Per esempio, nella storia sentimentale la tua esigenza è quella di raccontare davvero cosa succede tra due ragazzi, a differenza di come può farlo la tv o altri prodotti mainstream. Mentre se vuoi raccontare un ambiente lavorativo come quello di Età dell’oro puoi permetterti di essere più esagerato o comunque di non farlo in maniera filologica. Ma il tutto rimane coerente nella misura in cui c’è dietro un criterio che è sempre quello dell’essere al servizio dello spettatore. In questo momento lo spettatore, dopo questa situazione, cosa si…

Cosa si aspetta?

Simone: Non tanto cosa si aspetta, ma cosa posso dargli di utile, di interessante. Come posso rendere più preziosa possibile questa cosa per lui. Allora in un caso sarà più realistica, in un altro caso sarà più comica, e così via.
Pier: Una cosa, mi rendo conto ora, di cui sono contento è che la serie è molto psichedelica ma nel complesso è comunque coerente. Se prendi tre scene a caso e le metti vicine possono non sembrare della stessa serie, ma allo stesso tempo non mi pare ci siano scene in cui lo spettatore è confuso sul tono di quello che sta guardando.

Ma quindi questi personaggi continueranno a esistere?

Fabrizio: In generale c’è la voglia di non raccogliere questi personaggi dal minuto dopo, ma di raccontarli un po’ più avanti in modo da goderci un altro approccio. L’approccio che abbiamo avuto su Età dell’oro è stato sfiga, sfiga, sfiga, sfiga, alla fine dai forse, no sfiga, poi però dai ok. Invece ci piacerebbe con più tempo e maturità creativa poter veder personaggi che lavorano e fanno figate. La voglia di fare roba adulta. Spesso giochiamo su un registro infantile, ora ci piacerebbe giocare anche con altri registri.

Non mi rimane che farvi un’ultima domanda. La scena della Ferrante l’avete girata prima o dopo il big reveal?

Insieme: Prima, prima.
Simone: Abbiamo anche pensato di toglierla.
Fabrizio: Anzi pensavamo fosse bruciata, per fortuna rimaneva un po’ questo dubbio che poi non era un dubbio, ma almeno giornalisticamente funzionava.
Simone: Nessuno vuole davvero sapere chi è Elena Ferrante.

 

— foto dal dietro le quinte di Età dell’oro di Jacopo Trotta