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Nella confusione generale delle analisi post-voto, da qualche giorno ha cominciato a girare sui social network un grafico pubblicato dal New York Times, che mostrerebbe come la percentuale di chi dichiara sia “essenziale” vivere in una democrazia diminuisca drasticamente tra i nati negli anni ’30 e i nati negli anni ’80.

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Che le democrazie occidentali stiano vivendo un lungo periodo di instabilità e crisi, passata naturalmente tra i vasi comunicanti dell’economia e della politica, sembra fuori di dubbio, ed è entrato a far parte ormai stabilmente del dibattito comune. Resta un certo disaccordo su cosa stia minando maggiormente le fondamenta democratiche.

La visione di quei trend così paurosamente declinanti ha spinto molti a indicare, tra le varie minacce, anche la disaffezione dei più giovani.

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Il caso sembra adattarsi perfettamente al voto referendario di domenica scorsa, se si interpreta il No — che tra i giovani ha avuto percentuali superiori all’80% — come un voto di ripulsa della democrazia liberale pulita, colta e benestante offerta dal PD renziano, a favore di un generico caos politico e/o dell’autoritarismo in salsa grillina o salviniana. (Un’interpretazione riduttiva che già in partenza presenta numerosi problemi, come abbiamo scritto).

Meno calzanti gli altri segnali di cattiva salute per le democrazie occidentali: in particolare l’elezione di Trump, che ha visto gran parte del voto giovanile pesare a favore di Hillary Clinton, per quanto poco amata — alle primarie del Partito Democratico, quei voti erano per Bernie Sanders. (Vuol dire che i giovani italiani sono più retrogradi e ostili all’idea platonica del Cambiamento dei loro omologhi britannici o statunitensi, come scrive in questo editoriale giustamente criticato Anna Zafesova su IL? No.)

Il grafico del New York Times si basa su una ricerca di Yascha Mounk e Roberto Stefan Foa (rispettivamente, Harvard e Melbourne), anticipata da un articolo pubblicato a luglio sul Journal of Democracy, che prende in considerazione tre fattori per individuare i segni di “deconsolidamento” democratico: il supporto popolare alle istituzioni democratiche; la disponibilità dei cittadini nei confronti di forme di governo non democratiche; la forza dei partiti politici “anti-sistema.”

Due giorni fa, il Washington Post ha pubblicato una sorta di debunking del grafico, mettendone in luce i limiti e certe inesattezze metodologiche — in primis, il fatto di prendere in considerazione soltanto chi ha dato il massimo punteggio (su una scala di dieci) all’importanza di vivere in un regime democratico, trattando tutti gli altri — dall’1 al 9 — allo stesso modo.

Un declino meno drastico del supporto dei più giovani alla democrazia si può quindi re-inquadrare in un fenomeno storico fisiologico — è ragionevole che i nati nell’immediato dopoguerra basino il proprio giudizio su una differente prospettiva — o anagrafico — è facile che i più giovani mostrino una maggiore attitudine critica.

Ma, al di là del grafico, il limite principale di questo tipo di studi — e degli articoli di giornale che, un po’ come succede con le ricerche sui benefici o i danni del caffè, li riprendono spesso acriticamente — è il trattare la democrazia come un regime “neutro”, senza connotazioni particolari, se si eccettua quella, quanto mai generica, di “liberale”. Ma non esiste la democrazia: ne esistono tante declinazioni — sia dal punto di vista dell’architettura istituzionale, sia da quello delle politiche messe in atto dai governi — e sono queste declinazioni particolari, semmai, a dare segni di cedimento.

Dopo la fine dei grandi moti di protesta no-global all’alba del millennio — e anche delle sue ultime propaggini, come Occupy Wall Street — lo straordinario supporto giovanile alla campagna di Bernie Sanders, così come la netta vittoria del No domenica scorsa, sembrano dimostrare al contrario che la partecipazione dei giovani alla vita democratica è ben presente. La disaffezione, piuttosto, si orienta nei confronti di un sistema politico-economico che ha dato ampiamente prova di non saper risolvere i problemi delle società occidentali, spesso, al contrario, aggravandoli.

Un serio pericolo per la democrazia — intesa come set di regole del gioco — non è il malcontento, ma il deterioramento del dibattito pubblico e della partecipazione politica organizzata, che fa mancare al malcontento stesso una struttura cui ancorarsi. Anche di questo la campagna referendaria ha offerto prove esemplari, mossa più da psicosi collettive contrapposte che da un serio discorso riformista (o contro-riformista).

Prima degli allarmismi sulle pulsioni anti-democratiche dei millennial, bisognerebbe quindi riflettere su quali siano le esigenze di una democrazia sana, e combattere le tendenze disgregatrici consolidando i meccanismi — a lungo deteriorati — che permettono al dissenso di svilupparsi all’interno delle regole. Un deterioramento, questo, di cui non sono responsabili certo i più giovani.