Una settimana nei centri d’accoglienza profughi ad Atene e Salonicco: la quotidianità dei volontari, le vite dei migranti, le politiche della poca accoglienza — sono storie di porte chiuse.
di Elena Buzzo e Carlotta Passerini
foto di Hans Leopold HelmPer garantire la sicurezza e l’anonimato degli intervistati, tutti i nomi sono stati cambiati.
secondo giorno
Il campo di Vasilika si trova nell’entroterra, verso il confine con la Calcidica. Ospita circa 1000 profughi curdi e arabi, provenienti per la maggior parte dal campo di EKO station smantellato a giugno. È un campo militare gestito da UNHCR assieme ad alcuni volontari che ci lavorano da prima che arrivassero i profughi, ovvero da circa novembre dell’anno scorso per metterlo in sicurezza e attrezzarlo.
L’UNHCR ha dei tempi di azione elefantiaci. Deve avere a che fare con il governo greco, che a sua volta deve rifarsi all’Onu. La sua dispersività nelle lungaggini burocratiche, però, è compensata dall’impeccabile gestione del campo. Ci spiega un volontario, “il problema sta nei piani alti, in un organo di comando lento e burocratizzato. Chi ci va di mezzo sono sia i rifugiati che i lavoratori dell’UNHCR, che sono qui dalla mattina alla sera ma a livello mediatico non hanno una grande fama.”
Firdaus, un’associazione svizzera, si occupa di mandare volontari nel campo: molti di loro arrivano con minimo mille euro di finanziamenti privati — fundrasing — per aiutare chi già lavora a Vasilika.
L’ingresso della struttura è piuttosto accogliente. Ci sono numerosi container dell’amministrazione e panni stesi su ogni recinzione. Una lunga distesa di ghiaia occupa la parte esterna, mentre le tende sono all’interno di grandi capannoni: 307 tende divise in 7 hangar, dall’1 al 4 ospitano siriani arabi, dal 5 al 7 siriani curdi.
È un enorme limbo in cui tutti aspettano, sia profughi che volontari.
“È la burocratizzazione delle procedure che rallenta gli interventi dell’UNHCR. C’è una falla nella gestione a livello politico, non umanitario,” ci spiega un volontario. Il campo comunque è ben attrezzato e all’interno il clima è disteso. I bambini — 400 circa in totale — corrono e giocano in continuazione. Hanno un parco giochi in fondo al campo e in un tendone di Save the Children si trova la scuola.
Nel campo di Vasilika non sono segnalate risse da circa due mesi — un tempo piuttosto lungo per gli standard delle strutture in zona. È anche merito dei numerosi progetti di condivisione e socializzazione tra i profughi organizzati nel campo. “Stiamo cercando di portare qui dentro arte e bellezza all’interno: un posto non curato dal punto di vista estetico fa deprimere le persone e una famiglia depressa diventa un costo per la comunità. Quando le persone si deprimono, somatizzano il loro dolore e si ammalano più facilmente.” I volontari stanno chiamando a raccolta artisti locali, tra cui un writer, e assieme agli artisti del campo vogliono creare un murales su un muro esterno a uno degli hangar.
“Abbiamo qui nel campo un artista siriano i cui quadri sono stati esposti poco fa a un congresso a Malta. Ci aiuterà a fare il murales che verrà deciso assieme a tutta la comunità.”
Di recente i volontari hanno portato i profughi al planetario del paese vicino. Questo progetto è in linea con l’obiettivo di integrare il campo nel paese e il paese nel campo, coinvolgendo la popolazione della vicina cittadina di Thermi. “È stato organizzato un food festival: da qui sono partiti in novanta e abbiamo trovato mille persone che ci aspettavano nella piazza del paese. Un momento emozionante, ballavano tutti assieme e la gente piangeva. Da pelle d’oca! La comunità si è avvicinata tantissimo alla questione, abbiamo fatto anche eventi teatrali con due spettacoli organizzati dai greci. I profughi non capivano nulla, ma ridevano tutti.
I volontari seguono i loro bisogni cercando di soddisfarli uno ad uno: occhiali nuovi, visite private, thermos per sterilizzare i biberon. La struttura medica all’interno del campo funziona a tempo pieno. “Sappiamo benissimo quando arriverà l’influenza e siamo pronti. Ci aspettavamo la varicella, avevamo studiato i tempi di incubazione quindi abbiamo fatto fare gli esami del sangue e le vaccinazioni alle donne incinte.” Per quanto riguarda i viveri vengono forniti i pasti giornalieri, ma i volontari hanno aiutato i profughi a costruire due forni per il pane e uno shawerma, in modo che possano anche cucinare autonomamente. Inoltre sono state avviate cinque attività diverse a cui i volontari hanno dato microcredito per aprire dei minimarket all’interno degli hangar.
All’ingresso del campo notiamo una coppia che sta salendo su un taxi. Chiediamo informazioni a un volontario su dove stiamo andando e scopriamo che hanno una bambina in ospedale, nata il 13 settembre, affetta da sindrome di down. Sono giovanissimi, ogni giorno devono andare a trovarla e il campo gli fornisce il taxi. Se dovessero andare con il bus ci impiegherebbero tutto il pomeriggio e lascerebbero da soli nel campo altri quattro figli.
Incontriamo Majed seduto a un tavolino mentre parla al telefono con la moglie che si trova a Vienna. È un signore brizzolato di quarantasei anni — che non dimostra: “quando ero in Siria mi tingevo i capelli di nero, sembravo un ragazzo” dice mostrandoci una fotografia “pensavano che avessi al massimo ventinove anni.” Da nove mesi è in Grecia, da quattro nel campo di Vasilika dove conosce ormai quasi tutti. Ma si sente un po’ solo. “Qui sto bene anche se ci sono dei problemi,” racconta. “Per fortuna ho due amici nel campo, se no sarei perso.” Majed viene da Afrin, cittadina curda nella zona di Aleppo. Ha vissuto molti anni a Damasco, dove ha studiato ingegneria all’università. Non ha figli — “non ancora”— ma quando si ricongiungerà con la moglie spera di averne. Se nascesse una femmina la vorrebbe chiamare Helen, “il suono più dolce,” secondo lui.
Majed ci chiede se imparare il tedesco sia difficile: vuole prepararsi per quando “inshallah!” raggiungerà la moglie in Austria. Dice che a Vienna ci sono tanti siriani, “se sto con loro parlo arabo o curdo, non imparo. Studiare sui libri è utile, però è difficile, meglio imparare la lingua ascoltando parlare tedesco sull’autobus.”
Anche Mohammed e Meryem vengono da Afrin, come moltissime famiglie nel campo. Hanno due figli, uno di diciassette mesi è uno di quattro anni. Vivono in uno degli hangar di Vasilika riservato ai curdi. La loro tenda è ben organizzata e molto pulita. Mohammed ha costruito un’altalena in legno per il figlio più grande. Mohammed ha trent’anni ed è da sette mesi in Grecia, da quattro a Vasilika. “La vita qui è difficile, soprattutto per i bambini.”
Non sa dove andranno dopo, non è molto fiducioso sulla riuscita del suo viaggio.
Salutiamo la famiglia e proseguiamo la visita all’hangar. Qualche tenda più avanti troviamo delle donne curde che bevono caffè attorno a un tavolo, di fronte alla tenda. La più piccola è una ragazza di diciassette anni che parla benissimo inglese. Quando glielo diciamo, la madre ci spiega orgogliosa: “fa la traduttrice al campo con chi non parla inglese.”
Ci invitano a sederci con loro, ma purtroppo abbiamo poco tempo e continuiamo a camminare.
Appena fuori dagli hangar, nella zona curda, dei ragazzi scherzano attorno a un fuoco. Ci fermiamo a parlare con loro e ci spiegano di essere curdi dell’Iraq. Uno di loro era un Peshmerga. “Ho combattuto contro Daesh in Iraq, lavoravo insieme all’esercito americano. Per questo che parlo bene l’inglese.”
Ha venticinque anni ed è segnato dalla guerra.
Gli operatori del campo sono costretti a dargli delle vitamine per tranquillizzarlo perché dopo quello che ha visto non riesce più ad avere una vita normale. Ci racconta di aver ucciso delle persone mentre era un combattente, “ma non voglio uccidere, non è questa la mia vita.” Insieme ad altri due ragazzi curdi iracheni ha costruito due casette in legno. Una è aperta, una sorta di gazebo, con una poltrona e delle casse — musica mediorientale che invade tutto il campo. Accanto a questa c’è l’altra casetta, chiusa. È dipinta di scuro all’esterno e di fianco alla porta è disegnata una bandiera del Kurdistan. All’interno ci sono dei divani e sulle pareti si vedono un graffito del Che e delle scritte in curdo. Compare più volte il nome della loro città, Zakho, al confine con la Siria.
L’ex soldato ci spiega di aver provato dieci volte a passare il confine per partire, ma non ci è mai riuscito, e ha perso oltre 10.000 dollari. Ora non ha soldi ed è bloccato a Vasilika. “La politica europea è sbagliata, prima hanno fatto passare tutti ai confini e ora i confini sono chiusi” dice. “Siamo diversi da quelli di prima?” prosegue “non voglio accusare la gente, perché gli europei sono brave persone e ci aiutano. È la politica a fare schifo. Se avessimo saputo che sarebbe stato così, non saremmo venuti in Europa.”
Salutiamo i ragazzi che si raccolgono di nuovo attorno al fuoco e proseguiamo.
Più avanti entriamo nell’hangar quattro. Sulla soglia c’è un signore con capelli e barba bianca che si presenta come “Baba Noel”, Babbo Natale. Viene da Yarmouk Camp, un campo profughi palestinese alla periferia di Damasco, raso al suolo dalle bombe di Assad, e qui vive in una tenda insieme alla sua famiglia. L’hanno arredata con lucine e pupazzi, per rendere l’atmosfera più accogliente. “Baba Noel” fa compagnia a Riad, un ragazzo che vende falafel a Vasilika per guadagnare qualche soldo. Ci offrono subito un falafel a testa, specificando “sono tipici siriani, non come quelli egiziani.” I due sono curiosi di sapere se in Italia ci siano ristoranti di cucina siriana. Riad sta pensando di proseguire la sua attività — in effetti la sua cucina è strepitosa.
Le attività di questo genere sono fiorenti, nella piccola bolla del campo. Proseguendo incontriamo dei signori attorno a un tavolo su cui sono appoggiati pacchetti di sigarette — anche loro hanno avviato una sorta di impresa. Vengono dalla zona centrale della Siria, dove tutti avevano un lavoro stabile.
Di tutt’altro tipo è il campo che si trova accanto a Vasilika: Eko camp — la sua controparte non ufficiale. È gestito da ragazzi catalani che hanno fatto un lavoro splendido: hanno affittato uno spazio privato dove vivono ancora i proprietari e hanno costruito nel giardino della casa asilo, campo da pallavolo, scuola e cucina. È come la piazza del paese, aperto dalle 8-20 e chiuso il venerdì, la domenica araba.
Ultimamente in realtà l’affluenza è diminuita perché la scuola di Thermi ha accettato di attivare i corsi per i bambini del campo, “ma sarà un inserimento lento perché questi bambini non sono abituati a stare fermi in una classe: sono cinque anni che non vedono scuola.
È arrivato il momento di andare. Prendiamo un autobus nella strada che costeggia il campo per tornare a Salonicco e con noi sale una coppia di profughi siriani. Lei si chiama Jasmine e lui Jamil. Hanno ventisei e ventitré anni e sono in Grecia da sette mesi: dopo un anno a Istanbul si sono affidati a un trafficante e hanno preso un barcone per Kos, dove sono rimasti qualche mese. Poi sono arrivati ad Atene e infine si sono spostati a Salonicco, a Vasilika. Ora sono diretti di nuovo verso la capitale e tenteranno partire per l’Europa centrale. Hanno provato tre volte a superare i confini, ma sono sempre stati fermati. La prima volta, dopo aver camminato per cinque giorni, sono stati fermati in Macedonia e rimandati in Grecia. La seconda volta la polizia li ha riportati oltre confine dopo che avevano camminato per undici giorni e raggiunto la Serbia. La terza volta il loro cammino è stato interrotto dopo soli tre giorni.
Jasmine e Jamil vengono da Damasco dove hanno studiato entrambi legge. Si sono conosciuti all’università, sono sposati da due anni e quando raggiungeranno la Germania proveranno a mettere su famiglia. “Vorrei due figli, come fate voi” dice Jasmine “sai, i Siriani hanno tanti figli, ma ora è difficile mantenerli.”
Entrambi spiegano di voler continuare gli studi una volta arrivati a destinazione. Lei si vuole specializzate in diritto penale, lui non sa ancora.
Purtroppo siamo arrivati alla nostra fermata e dobbiamo scendere. Salutiamo la coppia di siriani, e li guardiamo mentre l’autobus si allontana, sperando che abbiano un futuro migliore.
Da quando è stata chiusa la rotta balcanica in molti lasciano i campi per andare nella capitale da dove cercano di raggiungere l’Europa. I profughi in Grecia ad oggi sono oltre 50 mila totali, ma si cerca di non sbandierare troppo questo dato — verrebbe senza dubbio strumentalizzato dalle destre europee, dunque si preferisce tenere un basso profilo. Ma altrettanti non vogliono più andare via: hanno paura di quello che li aspetta fuori e non sono più abituati a vivere in un contesto sociale. Ecco perché il campo di Vasilika organizza giornate a Salonicco dedicate ai profughi per arginare i loro futuri problemi di inserimento.