Un nuovo studio pubblicato dalla Fondazione Leone Moressa testimonia il gigantesco contributo dell’immigrazione sull’economia italiana. Abbiamo parlato con Enrico Di Pasquale, ricercatore presso l’istituto — che prende il nome da uno storico partigiano — della situazione del lavoro straniero in Italia, e l’innesto della forza lavoro rappresentata dai migranti e dai rifugiati che quotidianamente arrivano sulle coste del Paese.
Secondo valori dello stesso Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, nel corso del 2015 la ricchezza prodotta in termini di valore aggiunto da lavoratori e imprenditori stranieri è di circa 127 miliardi, pari all’8,8% del valore aggiunto nazionale — a fare le dovute proporzioni, un contributo di poco inferiore a quello del gruppo Fiat (di 136 miliardi).
Il contributo straniero alle casse dello Stato è di conseguenza molto ingente: sono 11 miliardi di contributi previdenziali annui, 7 di Irpef, e un totale di 550mila imprese di fondazione esclusivamente straniera.
Il problema, tuttavia, è la produttività: se il valore precedentemente riferito al gruppo Fiat — controllato da Exor S.p.A. — ricade in un totale di produttività per occupato di 135mila euro, per gli immigrati il valore è attorno ai 50mila.
Gli immigrati sono mediamente più giovani — il 78,1% è in età lavorativa, contro la media italiana del 63,2% — e hanno un tasso di occupazione nettamente superiore alla media nazionale, al 66%. Ma si tratta quasi esclusivamente di lavori a bassa qualifica.
“Uno dei problemi principali,” ci spiega Di Pasquale al telefono “è la completa mancanza di sistemi di riconoscimento sia di titoli di studio che di competenze a livello informale.” Questo porta inevitabilmente a pesanti differenze in termini non solo di stipendio e quindi di reddito, ma preclude alla popolazione straniera l’accesso a lavori specializzati con maggiori speranze di carriera.
“Bisogna anche sottolineare la completa incapacità dell’Italia di attrarre qualsiasi forma di forza lavoro specializzata,” dice Di Pasquale.
Non ci sono Paesi che smercino giovani neolaureati con tazze da thè con la bandiera italiana e la scritta “Stai Calmo & Tira Avanti” (Oh dio).
In questo contesto come si può valutare l’operato di accoglienza da parte dell’Italia nel contesto dell’emergenza rifugiati?
“Il problema principale è quando attivare i meccanismi di integrazione: a volte può volerci anche un anno. Non so se sia da considerarsi una responsabilità dello Stato o dei singoli centri d’accoglienza, ma più si attende peggio è” ci risponde Di Pasquale.
“Un enorme problema a nostro avviso resta l’emergenzialità delle strutture — circa l’80% è accolta nel centri temporanei e nei CAR, sono il 15% sono accolti nel sistema SPRAR, che malgrado le comunque numerose problematicità è considerato il modello migliore in Italia in questo momento. Questo chiaramente se nello SPRAR è possibile attivare dei percorsi di integrazione e inserimento, nei CAR è sicuramente molto più difficile.”
I contributi al Paese sono insomma innegabili: nel 2014 i contributi previdenziali erano a quota 10,9 miliardi.
La Fondazione calcola che ogni anno i lavoratori stranieri paghino 640mila pensioni italiane.
Ai margini della comunità di stranieri — 5 milioni in Italia — esistono così queste persone — la nuova ondata di migranti di questi anni, gestiti con un decimo della serietà e dell’umanità di quanto fatto, poco e male, in precedenza, che “non hanno prospettive di uscire dal sistema di accoglienza.”
Ma finché non si accetterà che i migranti e gli stranieri sono una risorsa — come rivendichiamo quando i migranti siamo noi — non si potrà fare il passo successivo per una integrazione pensata per costruire veri canali di e percorso professionale. Di Pasquale conclude, ad esempio, “Ci manca completamente un sistema di pre-integrazione.”