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foto: CC BY 2.0 EU2017EE Estonian Presidency

I referendum su cannabis ed eutanasia sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale: una mossa molto conservatrice, ma che deve aprire un dibattito sulla formulazione dei quesiti respinti — e in generale sull’efficacia dei referendum per come sono concepiti oggi

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sull’eutanasia legale. La sentenza completa sarà pubblicata nei prossimi giorni, ma intanto l’ufficio stampa della Consulta ha diffuso un comunicato stampa in cui vengono riassunte le motivazioni: secondo la Corte, con l’abrogazione “ancorché parziale” della norma sull’omicidio del consenziente “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili.” Marco Cappato, tra i principali promotori, ha parlato di “una brutta notizia per coloro che subiscono e dovranno subire ancora più a lungo sofferenze insopportabili contro la loro volontà,” aggiungendo che saranno percorse altre strade come “disobbedienza civile e ricorsi.”

Il referendum aveva raccolto 1,2 milioni di firme — più del doppio del necessario — e proponeva di abrogare una parte dell’articolo 579 del codice penale, che punisce l’omicidio di una persona consenziente: un modo per rendere legale di fatto l’eutanasia attraverso lo strumento limitato del referendum, che nel nostro ordinamento può essere solo abrogativo. La proposta di abolire una parte delle norme sull’omicidio, in assenza di una cornice legale coerente sull’eutanasia, aveva fatto sollevare alcune critiche, non soltanto da parte del conservatorismo cattolico. Luigi Testa, ricercatore di diritto pubblico all’Università dell’Insubria, aveva scritto a luglio sul proprio blog sul Fatto Quotidiano che l’inammissibilità del referendum sarebbe stata probabile, perché l’abolizione di una parte dell’art. 579 non avrebbe garantito i “delicati bilanciamenti” auspicati dalla stessa Corte nel 2019.

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile anche il referendum sulla cannabis legale. In attesa che siano depositate le motivazioni della decisione, il neopresidente della Consulta Giuliano Amato le ha illustrate in una conferenza stampa — un fatto di per sé piuttosto inusuale. Amato ha spiegato che il quesito referendario sulla cannabis riguardava in realtà altre sostanze stupefacenti “pesanti” e quindi sarebbe stato sufficiente “a farci violare obblighi internazionali plurimi.” In più, il referendum sarebbe stato “inidoneo allo scopo” perché avrebbe lasciato in piedi “altre disposizioni che prevedono la responsabilità penale delle stesse condotte.”

Amato ha accusato in sostanza il comitato promotore di aver sbagliato il riferimento alle tabelle richiamate all’articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti, depenalizzando la coltivazione delle sostanze delle tabelle 1 e 3, mentre la cannabis si troverebbe nella tabella 2. Secondo il comitato promotore, invece, è la Corte costituzionale ad essersi sbagliata, perché la parola “coltiva” non può che riferirsi alla cannabis, mentre per le altre sostanze citate da Amato resterebbe il reato di “produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione.” Del resto, che il quesito proponesse di depenalizzare la “coltivazione” per uso personale di qualsiasi sostanza era già noto, ed era anche inevitabile per com’è scritta la legge, che non distingue adeguatamente tra le diverse sostanze. In ogni caso, nella tabella 1 la cannabis c’è, ma è citata con il suo principio attivo — il Delta-9-trans-tetraidrocannabinolo, comunemente noto come THC. Viene il dubbio, quindi, che la Corte costituzionale abbia preso la propria decisione senza sapere con precisione che cos’è il THC, e senza sapere che la cannabis si può coltivare e consumare senza particolari processi di produzione e raffinazione — a differenza di coca e papavero da oppio.

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