in copertina, elaborazione da grab di Piazza Pulita, via Twitter
Insieme alle altre misure del governo, il provvedimento ha contribuito a evitare circa 200 mila licenziamenti in più nel corso del 2020, ma ha lasciato scoperti i lavoratori più deboli e non è bastato a fermare l’emorragia di posti di lavoro
Nei prossimi giorni il governo Draghi dovrà decidere se prorogare o meno il blocco dei licenziamenti. È una decisione molta attesa, in particolare per due motivi: da un lato è un provvedimento che potenzialmente riguarda centinaia di migliaia di lavoratori a rischio che potrebbero da un giorno all’altro vedersi assottigliare il proprio reddito con aspre conseguenze sociali; dall’altro, per la prima volta da quando si è insediato a Palazzo Chigi, Mario Draghi dovrà esprimersi su un tema divisivo sia all’interno della stessa maggioranza che tra le parti sociali.
Lo stop è stato introdotto a metà marzo del 2020 con il decreto Cura Italia e riguarda esclusivamente i licenziamenti per motivi economici individuali e collettivi – quelli che concernono la riorganizzazione dell’azienda, solitamente quando si trova in una situazione di crisi. Con quel provvedimento, il governo Conte II cercava di limitare l’impatto della pandemia e delle conseguenti restrizioni sull’occupazione. Era il periodo in cui l’Italia entrava in lockdown nel pieno della prima ondata di contagi; venivano chiuse le attività produttive non essenziali e gli italiani iniziavano la difficile convivenza con l’esilio forzato tra le mura di casa. Il blocco è stato poi prorogato per tre volte fino al prossimo 31 marzo. Ora la palla è passata a Draghi, che pare sia propenso a un’ulteriore proroga. La bozza del decreto Sostegno (aka Ristori 5) che sta girando tra i Ministeri prevede infatti un prolungamento del blocco fino al 30 giugno 2021, una decisione che – se effettiva – accoglierebbe le richieste dei sindacati e scontenterebbe Confindustria, che chiede invece di limitare lo stop ai licenziamenti esclusivamente alle attività chiuse per volontà del governo in ottica anti-Covid.
Dovremo insomma aspettare ancora qualche giorno prima che il Governo si esprima sulla questione; ma dato che la peculiare misura italiana è oggetto di studio e di interesse fin dalla sua entrata in vigore, dopo un anno di applicazione si può tracciare un quadro relativo al suo impatto su occupazione e reddito delle famiglie italiane. L’attenzione sul provvedimento è stata infatti molto alta in questi mesi, in quanto una norma analoga era stata introdotta in Italia soltanto in un’altra occasione eccezionale, dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il sistema produttivo era stato totalmente devastato dal conflitto – e durò comunque di meno, “solo” 8 mesi. Con la diffusione della pandemia, solo altri due paesi europei hanno introdotto misure simili determinando una sospensione di alcune categorie di licenziamenti economici, la Grecia e la Spagna, entrambe colpite in modo violento dalla crisi al pari dell’Italia – solo il nostro Paese ha però vietato i licenziamenti economici nella loro interezza.
Il blocco dei licenziamenti ha funzionato?
Le stime preliminari della Banca d’Italia mostrano che le misure di estensione della Cig, il sostegno alla liquidità delle imprese e il blocco dei licenziamenti hanno impedito circa 600 mila licenziamenti l’anno scorso. In assenza delle misure introdotte dal governo, nel 2020 la crisi pandemica avrebbe potuto causare 200 mila licenziamenti in più da aggiungere ai 500 mila che si sarebbero avuti in condizioni normali (stesso numero del 2019). Secondo la stessa Banca d’Italia, però, “l’ampia copertura garantita dalla Cig-Covid e dalle altre politiche avrebbe potuto prevenire la gran parte dei licenziamenti addizionali dovuti alla crisi,” mantenendo quindi il numero di licenziamenti avvenuti l’anno scorso sui livelli del 2019 “anche a prescindere dalla normativa di blocco.”
Alle stesse conclusioni giunge un’analisi comparata effettuata dall’economista dell’OCSE, Andrea Garnero, pubblicata a fine agosto su lavoce.info. In Francia e Regno Unito, Paesi che come l’Italia hanno messo a punto sistemi analoghi alla cassa integrazione per far fronte allo shock pandemico – ma senza ricorrere al blocco – i licenziamenti non sono cresciuti o comunque sono aumentati di poco. In Francia non è stato registrato alcun aumento dei licenziamenti tra febbraio e giugno rispetto allo stesso periodo del 2019, e anzi i licenziamenti non economici sono addirittura diminuiti. Nel Regno Unito, invece, l’aumento è stato limitato: il tasso di licenziamenti era del 3,6 per mille nell’aprile 2019 ed è salito al 4,1 per mille nello stesso mese del 2020. Come spiega l’autore dell’articolo, non bastano certo “queste rapide e grossolane comparazioni internazionali per tirare conclusioni definitive per l’Italia,” anche perché i due paesi in questione hanno erogato la cassa integrazione senza i ritardi che hanno caratterizzato il nostro paese. “Tuttavia,” spiega Garnero, “i dati francesi e britannici instillano il dubbio che, una volta dato accesso alla Cig a tutti, il divieto di licenziamento, nel bene e nel male, fosse un provvedimento ridondante”.
In più, come mostra un recente studio dell’Osservatorio conti pubblici italiani, in Italia il calo delle cessazioni determinato dal blocco non è riuscito a compensare la diminuzione della creazione di nuovi posti di lavoro. In totale, le cessazioni dei rapporti di lavoro sono state 5 milioni tra gennaio e novembre 2020 rispetto ai 6,3 milioni dello stesso periodo nel 2019. Al contempo, le assunzioni sono passate da 6,8 milioni tra gennaio ed ottobre 2019 a soli 4,7 milioni nello stesso periodo del 2020. Il saldo è quindi negativo (-300 mila), mentre era positivo nel 2019 (+500 mila), a dimostrazione che il blocco dei licenziamenti è riuscito solo in parte ad arginare gli effetti della crisi e certamente non è servito a stimolare la ripresa del mercato del lavoro.
Il dibattito sul provvedimento non può però prescindere dalla situazione complessiva del welfare italiano. Il nostro paese vanta infatti un sistema di ammortizzatori sociali e misure a sostegno del reddito molto frammentato. Inoltre, i ritardi nell’erogazione della Cassa Integrazione e il caos che avvolge l’ANPAL ormai da mesi hanno fatto luce sull’inefficienza con cui in Italia vengono gestiti i processi di tutela e reinserimento del lavoratore nel mercato del lavoro. Non a caso, “il nostro personale nei centri per l’impiego è 1/7 di quello francese, 1/17 di quello tedesco, né funziona bene la collaborazione con le agenzie private accreditate,” spiega Annamaria Furlan, ex Segretaria Generale della CISL. Insomma, in mancanza di politiche attive, i lavoratori italiani licenziati rischiano di restare fermi al palo.
Il blocco non ha però protetto tutti. Se la sospensione dei licenziamenti economici ha salvato i lavoratori a tempo indeterminato, una grossa fetta di lavoratori precari è rimasta invece scoperta. I dati sono eloquenti: il saldo annuale per i contratti a tempo indeterminato è positivo (+158 mila), mentre quelli a tempo determinato sono calati di 393 mila unità in un anno e gli autonomi hanno registrato un -209 mila nel 2020 – quasi la metà degli occupati in meno totali. Tanti lavoratori a tempo determinato non si sono visti riconfermare i propri contratti dalle aziende alle prese con la crisi, mentre molti autonomi hanno dovuto affrontare mesi di entrate pressoché azzerate esclusivamente con l’aiuto di un’indennità una tantum – solo con la Legge di Bilancio 2021 è stato introdotto un nuovo ammortizzatore pensato per i lavoratori autonomi e assimilabile alla Cassa Integrazione, ISCRO.
In un certo senso, dunque, il blocco dei licenziamenti ha contribuito a rendere ancora più netta la divisione tra lavoratori stabili e precari. Giovani e donne sono stati lasciati senza ombrello di protezione: a dicembre, dei 101 mila occupati in meno rispetto al mese precedente, 99 mila erano donne; mentre in un anno gli occupati under 35 sono diminuiti del 5,4%, rispetto agli over 50 che sono invece cresciuti dello 0,6%. Ciò non significa che non è stato fatto abbastanza per proteggere le categorie di lavoratori più deboli.
Avendo definito il quadro della questione, non rimane che chiedersi cosa sia giusto fare ora. Il governo, come dicevamo, propende verso la proroga. Aprire oggi il rubinetto dei licenziamenti, dopo un anno di stop e a pandemia ancora in corso, potrebbe infatti avere un costo enorme. Non è dato sapere il numero preciso di licenziamenti che verrebbero applicati nel caso in cui il provvedimento venga accantonato, ma l’economista Bruno Anastasia stima 200-300 mila cessazioni. Di fatto, per qualche tempo il flusso ordinario di licenziamenti economici – 40-50 mila al mese – “potrebbe risultare raddoppiato o triplicato,” spiega Anastasia. Lavoratori che si andrebbero ad aggiungere ai precari già piegati dalla crisi. Per tutti, il reinserimento è ostacolato sia dalla pandemia sia dalle fiacche politiche attive del lavoro che l’Italia ha da offrire. Sarà Draghi, alla sua prima prova concreta di governo, a fare i suoi calcoli.
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