Il collegamento tra il consumo di animali e lo sviluppo di nuove epidemie è così vistoso da non poter essere più trascurato: potrebbe essere il momento giusto per pensare di escludere una volta per tutte la carne dalla nostra dieta.
Su Rai 3 qualche settimana fa è andato in onda un servizio impressionante. Il programma era “Indovina chi viene a cena” – lo conduce Serena Giannini e va in onda ogni domenica sera – e la puntata parlava di come la pandemia di questi mesi sia legata strettamente al nostro modo di rapportarci con l’ambiente e gli animali che lo abitano. Nella cronaca oramai per me esiste un prima, quando le epidemie non sembravano una eventualità realistica a chi non si occupasse di virologia, e un dopo. Nel dopo ci sono delle parole nuove, che usiamo per descrivere e per spiegare una realtà che nel prima non esisteva neppure come ipotesi.
Due parole che spiegano almeno in parte che cos’è questa epidemia sono zoonosi e spillover.
Una zoonosi è una malattia di origine animale che viene trasmessa dai vertebrati agli esseri umani con una sorta di salto di specie, chiamato spillover. Il 60% delle malattie umane sono zoonosi, ovvero sono state trasmesse da altre specie di vertebrati alla nostra. Lo spillover accade naturalmente, e non c’è virtualmente nulla che possa impedire che si verifichi, ma ci sono alcuni fattori che aumentano esponenzialmente le possibilità che accada. Tra queste, una delle più vistose è il consumo di carne animale, e in particolare il consumo di carne di animali selvatici, che portano in sé virus estranei al nostro sistema immunitario — ma senza avere segni di infezione. È così che agli esseri umani è stato trasmesso l’HIV: da un virus trasmesso da altre scimmie agli scimpanzé, e dagli scimpanzé cacciati a scopo alimentare in Africa centrale agli esseri umani. L’Hiv/AIDS ha causato una delle più spaventose pandemie del secolo scorso, e oggi i malati sono 37 milioni.
Il collegamento tra alimentazione carnivora e malattie infettive è talmente vistoso da poter sembrare grossolano: macellare e consumare animali ci porta a entrare in contatto con sangue e carni potenzialmente infette. Per quale ragione, allora, non ci siamo ancora chiesti se non sia necessario smettere di mangiare gli animali? Da anni non riesco a trovare giustificazioni razionali per la mia alimentazione carnivora. Sono persuasa che mangiare animali sia crudele, e ancora di più so che l’industria della carne e gli allevamenti intensivi danneggiano l’ambiente in modo irreparabile.
Continuare a consumare carne è una non-scelta, dettata in larga misura da pigrizia e abitudine più che dalla forte convinzione che quello che faccio sia giusto. Quando andavo al liceo lessi “Se niente importa,” un saggio animalista in favore del vegetarianesimo dello scrittore americano Jonathan Safran Foer. Il saggio documenta nel dettaglio gli orrori degli allevamenti intensivi, le condizioni orribili in cui gli animali vengono tenuti e la crudeltà con cui vengono macellati. Spiega, per esempio, che i suini allevati intensivamente sono costretti in gabbie minuscole dentro le quali non possono muoversi, e che spesso per questo le scrofe finiscono per schiacciare i piccoli con il loro peso. Foer racconta che gli addetti alla macellazione a volte torturano gli animali prima di ucciderli: ai maiali viene mozzato di netto il grugno e il muso sanguinante viene poi strofinato nel sale. Non riuscii a finire il libro, ma fui vegetariana per un paio di giorni.
Nel nostro paese il consumo pro capite annuale di carne arriva a 80 kg e in altre regioni del mondo, come in Sud America o in Australia, è persino superiore. La crescita del consumo di carne è costante e intensa — in Italia è triplicato dagli anni Sessanta a oggi — e aumenta con il crescere delle economie nazionali, che accrescono il potere d’acquisto dei cittadini. Nei paesi dove l’economia sta avendo uno sviluppo rapidissimo si assiste a un’impennata nei consumi di carne, in Cina come in Brasile. La popolazione mondiale e il mercato della carne crescono, con richiesta sempre maggiore. L’allevamento intensivo ha lo scopo di venire incontro a questa richiesta incessante, ma le risorse disponibili, in termini di spazi da dedicare agli animali e alla coltivazione del mangime e di acqua, sono limitate. Alcune simulazioni, in cui tutta la popolazione mondiale adotta uno stile di vita vegetariano, mostrano tra gli effetti positivi un calo drastico nelle emissioni di gas serra, una migliore preservazione degli ecosistemi e un aumento di biodiversità. Oggi sappiamo che la comunità scientifica da anni ipotizzava che la prossima “Grande pandemia” avrebbe avuto origine in un wet market dell’Asia centrale, come si pensa sia successo a Wuhan.
Non si tratta di profezie inquietanti, ma di semplice calcolo della probabilità.
Anche l’epidemia di SARS del 2002-2003, che provocava una malattia con sintomi respiratori molto simili a quelli del nuovo coronavirus, ha avuto probabilmente origine in uno di questi mercati. Per questa ragione, dopo l’epidemia di SARS, il Partito Comunista Cinese aveva emanato disposizioni perché i wet market interrompessero la vendita di animali vivi, ma al termine dell’emergenza le disposizioni sono state di fatto accantonate e il commercio è successivamente ripreso. Anche oggi, associazioni ambientaliste internazionali chiedono il supporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità perché i wet market e il commercio di animali selvatici vengano resi illegali in tutto il mondo. Dopo il bando per la SARS, gran parte dei mercati ha interrotto la vendita di animali vivi e selvatici, ma per ragioni culturali ed economiche è difficile immaginare che possano essere chiusi completamente. Michael Standaert sul Guardian scrive che invece sarebbe utile concentrarsi in misure per garantire un miglioramento delle condizioni igieniche dei mercati di tutto il mondo.
“Cultura” e “tradizione” sono anche le ragioni che motivano il massiccio consumo di carne animale che avviene in nazioni come la nostra. L’indignazione di fronte al consumo di carne per com’è inteso in altre culture è diffusissima: Oltre alle storie su pipistrelli e topi, in Occidente , non consideriamo accettabile l’idea di maltrattare animali da compagnia come cani e gatti, ma non siamo in grado di tracciare un confine che distingua stabilmente quali siano le caratteristiche che distinguono questi animali da quelli che, invece, mangiamo ogni giorno. Cosa distingue un vitello dai cuccioli che vengono adottati e trattati “come figli”? Si tratta di ragioni invisibili, strettamente culturali e arbitrarie, e forse davvero poco solide: si potrebbe dire che in Europa non siamo disposti a mangiare i cani semplicemente perché non abbiamo mai imparato a farlo. Sostanzialmente ignoriamo l’implicito controsenso di distinguere tra animali di compagnia e animali da mangiare a cena, certi di amare gli animali anche se ne mangiamo tantissimi.
Da un altro lato, è facile anche farsi prendere da una retorica ingenua e misantropa — cosa che è bene non fare, perché banalizzare il discorso è un ottimo modo chiacchierare molto e non concludere nulla. Da quando, ormai più un mese fa, in Europa i governi hanno disposto alla popolazione lockdown più o meno rigidi per limitare la diffusione del contagio, un tipo peculiare di cronaca – quella dei “colonnini morbosi” dei quotidiani – ha preso largo sui social e grazie alle catene su Whatsapp: è quella che documenta come la natura, ora che gli esseri umani sono fuori dai piedi perché chiusi in casa o negli ospedali attaccati ai ventilatori, si sta “riprendendo i propri spazi”. Si tratta molto spesso di fotografie o video, accompagnate in molti casi da commenti secondo cui “il virus siamo noi”.
Dire “il virus siamo noi” è un’affermazione crudele e superficiale.
Non credo sia sufficiente un video di papere che zampettano nel centro storico di una cittadina qualsiasi per controbilanciare, con sollievo, migliaia di morti. Oltre a questo, però, mi sembra che questo tipo di affermazione faccia qualcosa di più subdolo. Implica che le responsabilità che l’uomo ha nell’origine di questa pandemia e nella distruzione sistematica dell’ambiente naturale siano connaturate alla nostra specie, e di conseguenza immutabili. Queste responsabilità sono reali, e la scienza ce le attribuisce con certezza. Ma comportamenti che creano squilibri negli ecosistemi, come il massiccio consumo di carne animale e la deforestazione non sono necessari alla sopravvivenza della nostra specie, e per questa ragione è importante dire che devono essere messi in discussione.
Tra le parole più usate nel “dopo”, una è cambiamento. Siamo uomini piccoli, e abitiamo il mondo costruendoci la convinzione che il nostro rapporto con esso sia immutabile. Questa pandemia ci costringe a immaginare un futuro in cui la nostra quotidianità sarà diversa da quella che abbiamo conosciuto, e in cui la responsabilità che investe le nostre azioni private è immensa: non ho memoria di un tempo in cui il mio corpo mi sia sembrato allo stesso tempo così pericoloso e così fragile. David Quammen — che allo spillover ha dedicato un saggio — ha scritto in proposito in un editoriale sul New York Times: “Quando avete finito di preoccuparvi di questa pandemia, preoccupatevi della prossima”.
Nelle settimane che ho passato chiusa in casa non ho imparato a suonare uno strumento, non ho iniziato a fare ginnastica quotidianamente e non ho letto Guerra e Pace. Quello che ho fatto è stato sentirmi, per giorni, in balìa di cose gigantesche sulle quali non ho nessun controllo, mentre tutto quello che mi veniva chiesto di fare era di rimanere immobile. Sento di avere una responsabilità nei confronti delle altre persone (di chi per esempio si può ammalare e può morire con più facilità di me) ed è un sentimento che non ho mai provato così forte. Mi chiedo se possa essere questo senso di responsabilità, non solo verso me stessa e verso il mio corpo ma verso gli altri e verso il futuro, la spinta definitiva, la “migliore” tra le “buone ragioni”, per smettere di mangiare animali.