Negli ultimi anni il cinema italiano ha provato a raccontare, nel bene o nel male, i processi migratori in atto all’interno del nostro continente — opere come Fuocoammare, L’ordine delle cose e Io sto con la sposa hanno indagato la ciclicità di tali processi e il loro effetto sulla società.
Mentre l’Italia osserva meccanicamente in televisione le stesse immagini di sbarchi e soccorsi, il cinema infatti si sforza si squarciare il velo del racconto mediatico, cercando storie universali che trasmettano i valori necessari per superare un rifiuto sociale e umano che attanaglia la nostra società.
Uno dei registi italiani che ha approfondito con maggior lucidità il tema del movimento è stato Emanuele Crialese, regista romano di origini siciliane. Oggi più che mai i temi affrontati dai suoi film risultano essenziali per una riflessione sociale e culturale sul nostro passato, ma soprattutto sul nostro futuro. Partendo dalle sue pellicole abbiamo discusso con il regista di quanto le sue esperienze abbiano influenzato il suo linguaggio e di quanto il documentare si stia sostituendo al raccontare.
L’intervista è stata condotta durante il mese di luglio di quest’anno.
Comincerei da due elementi molto presenti nei tuoi film: la terra e il mare. Entrambi vengono rappresentati come simboli di speranza e allo stesso tempo immobilità, penso alla Sicilia di Nuovo Mondo e al mare che la circonda in Terraferma. Sono due simboli forti che tu racconti con altrettanta forza. Come può il cinema far risuonare questi concetti nello spettatore?
È una domanda per la quale non ho una sola risposta perché forse non c’è una sola risposta. Partiamo dal presupposto che non a tutti arrivano i messaggi che possono arrivare a te, è una questione di sensibilità. Il cinema è un linguaggio, che viene compreso da alcuni ma non da tutti, si tratta di immagini, di personaggi, di storie, e in quest’ottica deve risuonare qualcosa in te per poterlo interpretare. Ma non è che chi non vede non capisce, semplicemente la sua sensibilità sarà interessata a farsi trasportare da altre storie.
Com’è maturato dunque il tuo linguaggio e la tua sensibilità, da dove deriva l’importanza di guardare al passato per riuscire a comprendere il presente espressa nei tuoi film? Le tue origini siciliane hanno contribuito alla costruzione delle tue storie?
Quello che ha aiutato di più è stata la condizione di clandestino dopo gli studi fatti in America, senza permesso di soggiorno e visto mi sono sentito in una condizione di alieno, come lì vengono chiamati quelli nella mia situazione. Probabilmente il fatto di essere stato per tanto tempo fuori dal mio paese, mi ha fatto guardare l’Italia e la Sicilia da una prospettiva completamente diversa. Anche per questo mi sento a disagio a parlare di migrazione, perché non abbiamo mai smesso di migrare dall’inizio della nostra storia come civiltà. lo facciamo fisicamente e mentalmente, è un movimento che porta con sé conoscenza e sviluppo, è inutile negarlo, senza movimento non c’è vita. Questo è il paradosso più grande che sono andato a scardinare: l’uomo ha bisogno di muoversi, chi non parte mai non capisce fino in fondo cosa vuol dire essere quelli che si è. Quando non ci si mette mai in discussione e si danno per scontate le proprie origini e il proprio stato sociale non si riesce veramente a riflettere sulla propria condizione.
Dall’altra però i tuoi film descrivono anche un senso di appartenenza molto radicato.
È come pensare al passato: è nel momento in cui ci ricordiamo di quello che abbiamo vissuto che ne capiamo il valore. In qualche modo quindi capiamo il valore del posto a cui siamo legati, coi suoi pregi e difetti, solo quando ne scopriamo un altro.
A proposito di presente e passato, pensi che i tuoi film abbiano assunto nuovi valori in questi ultimi anni oppure sono opere che valgono sempre così come la continua ricerca dell’uomo per il movimento?
Io spero che valgano sempre, ma non sono io a poterlo dire, sarà il tempo a decidere. Non mi sono soffermato troppo sulla durata nel futuro di queste storie, proprio perché si legano a riflessioni momentanee e personali.
Mettendo da parte per un attimo il piano personale, dall’esterno hai notato un cambio di prospettive sui tuoi film, o meglio le tue storie incidono di più nel contesto di oggi?
Sicuramente incide più adesso perché c’è stato un risveglio, quindi nei ricorsi storici ci si accorge di qualcosa che diventa la voce dell’attualità ma che in realtà non sono altro che aspetti sempre esistiti. Giravo Nuovo Mondo quindici anni fa, Terraferma cinque, adesso è due anni che si parla davvero molto di immigrazione, ma è un interesse a scoppio ritardato, non un’emergenza. L’emergenza non è di due anni fa e nemmeno di dieci, la vogliamo chiamare emergenza, chiamiamola così, ma è una cosa che abbiamo sempre fatto e con cui abbiamo sempre dovuto avere a che fare: il senso di appartenenza, dove posso far valere i miei diritti, in quale terra, dove sono cittadino, di quale paese. Queste sono domande che ci poniamo ciclicamente, in maniera più prepotente in alcuni momenti storici, ma non abbiamo mai smesso di muoverci.
È chiaro che ci sono uomini per natura stanziali, la dimensione del viaggio non gli appartiene, sono uomini che crescono una verticalità piantata nella terra e difendono la loro territorialità. Poi ci sono coloro che per indole sono spinti a cercare nuovi territori. Io mi sento appartenere a questa seconda categoria, non per scelta, ma perché questo è quello che la vita mi ha insegnato. Io sono un nomade e per questo sono molto sensibile rispetto al destino di coloro che vogliono andare altrove.
In questi giorni a Milano c’è proprio una mostra a cura di Massimiliano Gioni che racconta questo aspetto dell’umanità in movimento e della sua, spesso drammatica, ciclicità.
C’è appunto una differenza che va marcata: noi oggi trattiamo queste persone molto peggio di come facevano i nostri nonni e le generazioni prima di loro. Oggi chiudiamo i confini, ma siamo stati i primi ad aver avuto bisogno della loro apertura in passato.
Tornando alla prima domanda, oggi il mare sembra essere uno spazio con cui nessuno vuole avere a che fare, mentre la terra ha sempre più barriere.
Il mare, insieme alla sabbia e alle camere a gas, ha il potere di far sparire la memoria dei corpi. Quando riportiamo a galla, per usare un termine della psicoanalisi, le cose che abbiamo rimosso nel nostro inconscio allora arrivano i dolori, che non vanno però ostacolati, anzi elaborati e integrati, cosa che noi non siamo in grado di fare come società. Individualmente ognuno di noi può invece avere un atteggiamento diverso, ma come società dobbiamo risolvere questo nostro conflitto interno.
Ho notato che negli ultimi tempi la tendenza è quella di utilizzare una forma documentaristica per descrivere queste storie, quando invece secondo me la finzione narrativa aiuterebbe di più il processo di avvicinamento dello spettatore a questo tipo di temi. Tu come vedi il documentare rispetto al raccontare?
Qua siamo in un terreno molto farraginoso, in cui mantengo una posizione un po’ fondamentalista. Adesso c’è molta confusione intorno alla parola documentario, il documentario è un documento prezioso perché rappresentativo di una realtà che non si può mettere in scena, ma che va raccontata per quella che è, cercando di rimanere più fedeli possibili al tempo e all’individuo. In questo contesto non ci si può assolutamente esimere dal raccontare la verità, non si possono manipolare i fatti che si raccontano, oggi invece c’è una tendenza dei documentaristi a mettere in scena, quindi a drammatizzare, ciò che è già altamente drammatico. Questo atteggiamento finisce per mettere in una posizione scomoda lo spettatore, che alla fine non sa a cosa credere.
La rappresentazione è un modo per evocare una realtà molto personale usando il racconto metaforico e il gioco delle maschere, il documentario invece con la scusa del vero maschera ancora di più la realtà. Una cosa è mettere in scena quello che vedo, un’altra è inserirmi in quello che vedo e raccontare una verità parziale accompagnata da una storia che aggiungo io. Allora si usava un altro termine per definire questo tipo di produzioni, il mockumentary, in cui si dichiara da subito l’unione tra verità e messa in scena.
Sempre di più siamo messi di fronte a storie che raccontano la partenza perché sembra quasi impossibile percepire il ritorno, secondo te arriverà il momento per il cinema di raccontare il ritorno?
Bisogna capire di che ritorno stiamo parlando. È attraverso le immagini che uno ritorna a se stesso, si rielabora ciò che si vede e lo fa proprio, questo è già un ritorno alle proprie origini. Non tanto come individui ma come genere umano. Si ritorna quando si smette di negare i corsi e ricorsi storici, quando le latenze diventano presenze.
In questo contesto di eterno ritorno però i tuoi ultimi film partono comunque dall’elemento del viaggio, cosa racconteresti dopo?
Esattamente quello che hai citato tu, in questo momento sto ragionando sul tema del ritorno. Mi domando se sia qualcosa che possiamo rappresentare sapendo che lo stiamo rappresentando. Vorrebbe dire la fine di un percorso che non ha mai fine, in realtà una fine molto precisa ce l’ha, non sapremo quando né dove, ma ci sarà. Io sento che nel momento in cui c’è comunicazione tra una massa di persone che vedono e assistono a qualcosa che parla di loro, anche indirettamente, lì si compie la magia del ritorno, che non sarà mai consapevole, ma sempre metafisico e indefinito.
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