50 morti, 53 feriti. Sono gli ultimi numeri della strage al Pulse, un nightclub gay di Orlando.
Sono le 2:09 di notte quando sulla pagina Facebook del Pulse appare un messaggio: scappate e continuate a correre.
Nove minuti prima, Omar Mir Seddique Mateen aveva aperto il fuoco davanti al locale. Armato con un fucile AR-15 d’assalto a recupero di gas, una pistola e – forse – dell’esplosivo, Mateen entra nel locale e prende in ostaggio le 340 persone al suo interno.
Alle 5 di mattina, dopo una notte di negoziazione, l’unità SWAT del dipartimento di polizia di Orlando entra nell’edificio su un mezzo corazzato e uccide il sospettato.
All’interno scoprono una carneficina.
Omar Mateen, 29 anni, era già stato indagato dall’FBI nel 2013 e nel 2014. Lavorava come guardia giurata per la G4S, multinazionale che opera nell’ambito della sicurezza.
A prescindere dal presunto legame tra Mateen e il cosiddetto Stato Islamico è difficile indicare l’Islam come causa delle azioni dello stragista.
Siamo infatti in pieno Ramadan, un mese durante il quale ai musulmani non è permesso nemmeno imprecare. Il Ramadan è tuttavia tradizionalmente periodo di cooptazione da parte di agenti di radicalizzazione. È dagli anni della guerra di Bush Junior in Afghanistan che si misura, nelle zone di guerra, una decisa intensificazione dei contrattacchi da parte di forze islamiste contro l’Occidente.
L’Islam “canonico” ha un problema di omofobia – che condivide con il Cristianesimo. Quando si parla di terrorismo, tuttavia, la fede è soltanto un elemento iniziatico. Le vere ragioni della violenza sono solitamente dettate da tensioni di carattere politico e sociale: forme di revanscismo o movimenti di conquista mascherati da lotta pan-islamica, che sono ideologicamente molto più “occidentali” di quanto entrambe le parti siano a proprio agio ad ammettere.
Domenica il CAIR, Council of American-Islamic Relations, ha organizzato una conferenza stampa in supporto alla comunità LGBT e per prendere le distanze dagli estremismi.
Ma possono fare poco, oltre a cercare di rassicurare i loro vicini statunitensi, bianchi e spaventati, prendendo le distanze dall’operato di un omicida che nulla ha a che fare con loro.
Così, lo Stato Islamico usa la religione unicamente come elemento iniziatico, rituale, ed è l’incapacità della società occidentale di vedere la differenza tra estremisti e praticanti a rendere possibile questa fluidità ideologica. E lo Stato Islamico potrà dire alle proprie reclute che l’Occidente li odia, fintantoché non avremo dimostrato il contrario.
Mateen, nel suo confronto con le forze dell’ordine domenica, ha dichiarato di essere un seguace dell’ISIS. Tuttavia, la completa assenza di riferimenti all’attacco nel bollettino quotidiano rilasciato dallo Stato Islamico solleva qualche dubbio sul coinvolgimento di al-Raqqa.
Inoltre, è usanza per i combattenti dello Stato Islamico rivendicare la propria affiliazione a un individuo preciso all’interno dell’organizzazione, o al Califfo – non alla causa in generale. La dichiarazione vaga di Mateen fa sospettare che la sua radicalizzazione fosse relativamente recente, al punto di non aver ancora stabilito nessun legame effettivo con l’organizzazione terroristica.
Una fonte dell’Amaq News Agency, agenzia stampa legata all’ISIS, rivendica che Mateen fosse una recluta.
Ma lo Stato Islamico rivendica tutto, anche i brutti film.
Alle spalle c’è una strategia organizzativa che si è rivelata vincente: trasformare parte dell’organizzazione internazionale in uno strumento di stampa e propaganda, il cui scopo non è creare una rete globale di agenti radicalizzati ma una piattaforma che attiri e supporti individui violenti, accolga chi viene abbandonato dalla società, abusi di persone mentalmente instabili.
In questo contesto, è logico per lo Stato Islamico rivendicare la strage di Orlando. Potranno essere se vogliamo responsabili, ma non ne sono i mandanti.
Sacrificando la volontà organizzativa centrale, lo Stato Islamico ha modo di operare su scala internazionale senza doversi preoccupare della sorveglianza di massa.
L’obiettivo non è il singolo attacco, ma diventare il marchio dell’odio per l’Occidente – e in questo i media occidentali sono i loro piú forti alleati.
Allo Stato Islamico non interessa sapere come e quando eventuali violenti compiranno stragi in loro nome; la priorità è che la società occidentale prontamente li riconosca come mandanti. Solo così è possibile costruire il mito di un’organizzazione molto piú grande di quanto sia in realtà, e garantire che il pregiudizio resti vivo, minando qualsiasi tipo di interazione tra le due culture.
Politici, giornalisti, l’opinione pubblica abbracciano volentieri lo spin dello Stato Islamico perché è una storia piú facile da digerire, anche per noi. Marchiare la violenza come atto terroristico, meglio ancora se possibile come atto terroristico di una organizzazione dicharatamente nemica alla nostra way of life ci libera da ogni responsabilità sull’accaduto.
Ci viene detto “Un terrorista dello Stato Islamico uccide 50 persone a Orlando” invece che “Uno squilibrato omofobo armato con fucile regolarmente acquistato uccide 50 persone a Orlando” perché nel primo caso la colpa è solo di terzi, terzi terribili, nel secondo caso, è di tutti — anche nostra.
Solo così la società può non ammettere che siamo ancora molto lontani dall’accettazione di massa della comunità LGBTQ. Solo così la lobby delle armi può raccontare la vicenda attraverso il proprio filtro ideologico — che questi problemi si risolvano con piú armi, e non meno.
La glorificazione delle armi e la violenza sulla comunità LGBTQ non sono prerogative esclusive dell’Islam radicalizzato, anzi. Sono ideologie diffuse da persone che sanno molto bene cosa stanno facendo, e, nel caso dell’NRA, sono mosse da un implicito interesse economico.
Reagire con violenza all’attacco della scorsa notte significa accettare un gioco delle parti che ci divide come società, che genera ulteriore paura e odio. Marchiare Mateen come recluta dello ISIS, come terrorista islamista, è utile all’ISIS quanto alle sue controparti occidentali, organizzazioni che si nutrono di paura e generano odio.
Questa paura e questo odio non sono in nessun modo diversi da quelli propagandati dal cosiddetto Stato Islamico. Non sono nemmeno opposti. Sono gli stessi.
L’odio e la paura non si combattono con altro odio e altra paura.
Non si combattono nemmeno con l’amore, come vorrebbe un certo tipo di retorica, piuttosto banale, emersa nelle ore successive all’incidente: non si combatte con l’amore perché identificarsi con l’amore presuppone la demonizzazione del nemico.
L’odio e la paura si combattono con la responsabilità e il cambiamento.
Si combattono ammettendo che la nostra società infiamma questo conflitto tanto quanto lo Stato Islamico.
Si combattono operando i cambiamenti necessari in modo che chi si senta abbandonato o isolato, non lo sia.
Si combattono limitando l’accesso alle armi e ampliando i programmi di sostegno per chi è mentalmente instabile.
La nozione che la società laica occidentale sia naturalmente contrapposta al mondo religioso islamico, o che sia una forma sociale più evoluta, è giustificata quanto la credenza che il profeta curi la cecità con l’argilla, o che possa far sgorgare acqua dalle proprie mani.
Sta alla società stessa, guidata da politici e media, dimostrare che questo contesto possa garantire un pacifico salad bowl culturale, ma troppi scommettono sul contrario – e sono responsabili della strage di ieri quanto lo Stato Islamico.