L’attentato nei pressi della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme ha riacceso la tensione mai sopita tra palestinesi e israeliani; proteste e violenze stanno sconvolgendo la città e potrebbero sfociare in una nuova Intifada.
È il secondo venerdì di fila in cui vengono cancellate le preghiere sul Monte del Tempio; non succedeva dai tempi delle crociate, scrive Haaretz. Dal giorno dell’attentato — a partire dal quale il governo israeliano ha adottato nuove misure restrittive per l’accesso al complesso — i fedeli musulmani di Gerusalemme hanno dato il via a preghiere recitate di fronte ai soldati israeliani a guardia della Città Vecchia. La situazione è degenerata a partire da giovedì sera, quando le preghiere pacifiche si sono trasformate in scontri veri e propri. Venerdì 21 ai lanci di pietre e lacrimogeni si sono aggiunti spari e cariche da parte dell’esercito israeliano.
La protesta si indirizza ufficialmente contro l’installazione di metal detector all’ingresso del complesso del Monte del Tempio. Secondo l’opinione pubblica palestinese l’adozione di questi sistemi di sicurezza sarebbe solo un ulteriore prepotenza dell’invasore sionista, un’illegittima imposizione che mette in discussione l’antico status quo e, non da ultimo, una profanazione di un luogo santissimo dell’Islam. Come scrive Nir Hasson per Haaretz, in questi giorni si è reso evidente che i veri ‘proprietari’ del complesso di Al Aqsa sono i palestinesi di Gerusalemme, che non sono disposti a cedere di un centimetro sulla sovranità di un luogo che sentono essere l’ultimo baluardo della propria identità.
Ma da parte israeliana c’è chi è insofferente a queste pretese, come il politico centrista Yair Lapid che dichiara al Jerusalem Post: “Che qualcuno insista che installare metal detector per salvare vite innocenti sia in qualsiasi modo un attacco contro l’Islam e contro la libertà di preghiera sta di fatto incitando alla violenza e alla morte, senza nessuna ragione.”
Al di là delle dispute sulle cause, rimane certo che una spirale di violenza si è effettivamente innescata e che le vittime sono già molte, troppe: tre ragazzi palestinesi, poco più che adolescenti, sono morti a Gerusalemme colpiti dal fuoco israeliano; rivendicando il diritto ad una reazione alle prepotenze israeliane, Omer al Abed, di 20 anni, si è introdotto in una casa dell’insediamento di Halamish e ha ucciso tre persone, ferendone gravemente una quarta.
Anche la situazione politica si sta facendo più tesa: Abbas ha dichiarato la sospensione di tutti i contatti ufficiali con Israele, fino a che Israele non rinuncerà alle norme adottate unilateralmente.
Gli scontri si sono diffusi in tutta la West Bank, a Betlemme come a Hebron, lasciando dietro di sé una densa scia di arresti e feriti, soprattutto tra i civili palestinesi. Manifestazioni si sono tenute in Egitto, Malesia, Giordania, Libano, Yemen, qualche sparuto gruppo di sostegno è apparso anche a Londra e a Berlino. In Turchia c’è stato un imponente raduno a cui hanno partecipato migliaia di persone, riunitesi di fronte alla sinagoga Neve Shalom, non si sono risparmiati i lanci di pietre al grido “se non ci lasciate entrare nel nostro luogo di preghiera, noi non vi lasciamo entrare nel vostro,” come riporta Haaretz.
È spesso difficile capire le motivazioni profonde che animano e rafforzano questa impossibilità al dialogo.
I toni, il significato delle parole, i valori di riferimento compaiono in slogan appena coniati, che però nascondono dinamiche e rivendicazioni nate già vecchie, nell’eterno ritorno che è il conflitto israelo-palestinese. Soprattutto la tenacia araba, che lascia spesso ammirati e commossi, sembra rispondere a bisogni poco comprensibili per noi occidentali, a valori che ci ricordano la relatività della cultura che ognuno di noi si porta appresso. Sottolineare qualche dettaglio cercando di dare l’idea di un’atmosfera può servire a penetrare la logica che fonda questa storica incomprensione.
I giornalisti di Reuters si sono recati a Khobar, il paese del ventenne che ha ritenuto accettabile accoltellare a morte tre persone in quanto “eroica e necessaria reazione” — come scandiscono gli organi ufficiali di Hamas — agli avvenimenti di Al Aqsa. Il padre dell’attentatore Omar al Abed ha dichiarato di ritenere il regime di occupazione il vero responsabile dell’attacco, non il proprio figlio.
Il ragazzo, poco prima di uscire di casa per l’ultima volta, ha scritto un lungo post su Facebook in cui dichiara che prendere le armi è l’unico modo per ritrovare una dignità. Il ribaltamento valoriale è tipico del popolo che si sente assediato; l’umanità e la pace sono subordinati alla rivendicazione di diritti collettivi usurpati, non importa se la morte è il prezzo da pagare alla causa perché il beneficio che ne riceverà il gruppo sarà superiore ad ogni sofferenza subita dal singolo.
La giustificazione della violenza va di pari passo con la glorificazione della stessa. I palestinesi di Gerusalemme si sentono combattenti assediati e il loro linguaggio è un linguaggio mitico, eroico, guerresco, che stride pesantemente con la miseria di questi scontri che si trascinano da decenni. Il richiamo alla vendetta, al sacrificio e al sangue ricorre negli slogan che inframezzano la preghiera per le strade di Gerusalemme: “Con il sangue e lo spirito riscatteremo Al Aqsa” si alterna al classico “Allah è il più grande.” A Gerusalemme Est una folla esagitata ha partecipato ai funerali di uno dei ragazzi uccisi, ora diventato uno dei numerosi martiri della causa palestinese.
I video mostrano una fitta folla da cui spuntano una miriade di cellulari, febbrilmente dedicati a riprendere il centro focale della scena: il pallido corpo di Mohammed Lafi, trascinato e sballottato su una barella nella confusione delle persone inneggianti e senza un velo a coprirlo.
Questi giovani diventano loro malgrado simboli, prima ancora di essere sepolti, e il loro cadavere viene trattato come un simulacro, oggetto di dichiarazioni che piegano le loro storie ai bisogni della causa.
La glorificazione delle vittime palestinesi è temuta dagli israeliani, che spesso rifiutano di restituire i corpi alle famiglie o addirittura cercano di appropriarsi delle salme ancora in ospedale.
Per evitare ciò, una folla di palestinesi ha letteralmente trascinato, avvolti in un lenzuolo rosso di sangue, i resti del giovane Mohammed Abu Ghannam oltre il muro dell’ospedale in cui giacevano. Non c’è tempo per il pudore che si riserva alla morte, l’individuo è diluito nell’identità del gruppo che impone i mezzi e i fini ai suoi membri.
Noi ragioniamo da paese in pace e quando andiamo al mare a Tel Aviv o a visitare le chiese di Gerusalemme ci sembra di essere in un prolungamento di casa nostra. Certo incontriamo qualche dettaglio esotico, ma tutto sommato ritroviamo un’immagine del nostro continente, che ha superato – o almeno così sembra – nazionalismi etnicismi e soprattutto infiammanti dispute religiose.
Ma per i palestinesi è in atto una guerra, un’occupazione, e in questo senso la loro è una resistenza partigiana al nemico invasore. E solo così che il padre può comprendere il figlio che uccide intrufolandosi in una cucina all’ora di cena, che le famiglie possono consolarsi appellando i poveri figli morti con il nome di martiri, che gli assalitori possono legittimare l’omicidio nella divisa indossata dalla vittima, ormai disumanizzata.
Molti paesi arabi considerano Israele una forza occupante non diversa dalla Germania nazista che invadeva e sottometteva l’Europa, mentre molti paesi europei, gli Stati Uniti in primis, considerano Israele come uno stato non diverso nei diritti e nei doveri da qualsiasi altra nazione dalla storia più antica e più pacifica. Fino a che non si arriverà ad una considerazione unitaria della questione, l’intesa rimarrà lontana.
È impossibile tollerare quelli che sono a tutti gli effetti attentati terroristici se crediamo nella legittimità e necessità dell’esistenza dello stato di Israele. E d’altra parte è impossibile tollerare le violenze dell’esercito israeliano se lo si considera come forza occupante un suolo straniero. Tra israeliani e palestinesi c’è un’enorme discordanza proprio su quale sia, tra queste due, l’interpretazione corretta.
I paesi occidentali partecipano a questa ambiguità attraverso un uso confuso dei termini. È in corso una guerra che legittima le azioni di guerriglia proprie delle intifade palestinesi? O pensiamo che Israele sia uno stato alla pari di qualsiasi altra nazione vittima di attacchi terroristici, dai quali è doveroso si difenda adottando misure d’emergenza?
Lo si dica a chiare lettere. Fino a che l’ambiguità degli schieramenti non verrà dissipata una volta per tutte non si potrà evitare la retorica vittimistica grazie alla quale entrambe le parti da anni si auto assolvono da ogni responsabilità.
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