Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo e un suo progetto che sveliamo giorno dopo giorno sul nostro profilo Instagram. Questa settimana Marco Panzetti ci racconta la sua esperienza di sei settimane a bordo della nave Aquarius della ONG Sos Méditerranée, operativa nel Mar Mediterraneo.
Marco, da quanto segui il tema delle migrazioni?
Ho iniziato ad occuparmi del tema dei migranti, delle migrazioni e delle frontiere due anni fa, nell’estate 2015. Il progetto In between rientra in un lavoro a lungo termine, che ho chiamato The idea of Europe, il cui punto di partenza è un reportage su Ventimiglia fatto nel 2015. In seguito sono stato a Lampedusa e lungo la rotta dei Balcani.
Nel 2015 mi ricordo che in primavera, inizio estate, erano circolate notizie che segnalavano diversi naufragi, due in particolare: il primo a febbraio il secondo il 19 aprile, quest’ultimo il più tremendo che si ricordi. Queste notizie mi avevano scioccato. Notizie che riguardavano i migranti arrivarono in giugno anche da Ventimiglia, quando diversi migranti rimasero bloccati alla frontiera.
Davanti a queste notizie ho avuto una forte reazione di indignazione, prima che di rabbia. In quel periodo non avevo reali possibilità di recarmi a Lampedusa per vedere la situazione degli sbarchi, così decisi di andare a Ventimiglia che in quel momento era più accessibile per me.
Decisi dunque di realizzare questo primo reportage, di cui sono contento e che ha ricevuto apprezzamenti. È proprio da questo reportage che ho dato vita al progetto The idea of Europe, uno sguardo sul significato della crisi migratoria, il suo impatto sulle frontiere e sul significato dell’Ue stessa.
Come ti sei mosso per poter accedere ad una nave?
Devo dire che dopo questa prima esperienza è stata una conseguenza naturale provare a vedere più da vicino quello che era l’inizio del viaggio dei migranti, in barca per il Mediterraneo.
Ho iniziato scrivendo a tutte le ONG che operavano in questo campo. Mi sono rivolto alle ONG perchè sapevo che per vie ufficiali non sarei mai entrato, e per vie ufficiali intendo Frontex o Marina Militare per fare due esempi.
Mi hanno risposto in tante, ma ho concluso con SOS Méditerranée, che si è resa disponibile sin da subito. All’epoca erano abbastanza nuovi nel campo, nel senso che hanno iniziato a fare queste operazioni a febbraio del 2016. Sono persone veramente brave, molto disponibili, fanno un lavoro eccellente e sulla nave Aquarius lavorano in collaborazione con Medici Senza Frontiere.
Come ti hanno accolto una volta sulla nave? Il fotografo che a volte viene preso come il cacciatore di immagini: mi piacerebbe capire cosa vuol dire stare su una barca.
Con loro il mio rapporto lavorativo era anche una forma di scambio positivo. Così come loro avevano bisogno documentazione fotografica delle loro operazioni, così la mia motivazione principale era quella di poter portare avanti il mio lavoro personale, è stata una cosa che ha dato benefici ad entrambi.
Sulla nave da una parte c’è l’equipaggio vero e proprio, che coadiuva i componenti di SOS Méditerranée, esperti in tema di soccorso in mare, dall’altra ci sono i Medici Senza Frontiere che si occupano della parte medica e del sostentamento delle persone a bordo. Bisogna tenere presente che il viaggio verso l’Italia può durare anche due giorni, si tratta dunque di una operazione non solo di salvataggio dalle acque, ma anche di mantenimento in buone condizioni di vita. Sono necessari ogni volta rifornimenti, vestiti, coperte per la notte e tanto altro.
Per quanto mi riguarda l’accoglienza è stata delle migliori, mi sono trovato molto bene con tutte le persone a bordo. A tal proposito ci tengo molto a sottolineare, soprattutto a seguito delle diverse polemiche che ci sono state in questi mesi sulle ONG, che si tratta di una montagna di spazzatura. Ho conosciuto direttamente chi lavora con le ONG, e posso assicurare che fanno questa attività per spirito umanitario, si tratta di persone che prendono le vacanze per poter contribuire a queste operazioni! Inoltre, non c’è nessun tipo di contatto con i trafficanti. Le barche o le si avvistano con radar e binocolo o attraverso telefonate che arrivano dal Centro di controllo di Roma: sono loro che ricevono le chiamate di richiesta di soccorso. Queste le uniche due vie per le quali ci si attiva per il salvataggio.
Cosa vuol dire poter assistere a un salvataggio di una vita umana? È una cosa significativa alla quale forse non si dà molto peso.
Naturalmente non era il mio ruolo questo. Ma dal mio punto di vista personale, sopratuttto la prima volta, è un fatto assolutamente sconvolgente. È difficile raccontarlo a parole, spiegare fino a che punto ti possa cambiare anche a livello personale, per mille ragioni. Prima di tutto bisogna considerare che queste persone arrivano assolutamente senza nulla. È già tanto se hanno i vestiti addosso; non hanno nessun tipo di documento, non hanno da mangiare e non hanno da bere. Le loro condizioni sono assolutamente tragiche. A questo si somma il fatto che le imbarcazioni che utilizzano non hanno alcuna possibilità di arrivare in Italia. Io ero consapevole che queste persone sono mandate a morire.
Quando vai incontro a queste persone ti rendi conto che si sono trovate a poche ore dalla morte.
Le tue fotografie rimangono umane, non si soffermano troppo su questo evento così traumatico come l’hai descritto. Cosa ne pensi invece delle immagini forti, cruente, drammatiche, in questi contesti?
Ho presente la polemica e so benissimo di cosa parli. Io da una parte sono assolutamente convinto che le immagini drammatiche siano necessarie. Ci sono immagini drammatiche che hanno cambiato l’opinione e la storia di alcune guerre, a partire da quella del Vietnam. Servono per dare uno schiaffo alle coscienze delle persone, quindi rimangono importanti.
Per il fotografo a volte il dilemma è importante perché sai che se non trovi un’immagine drammatica, difficilmente ti pubblicheranno. Nel mio caso si trattava di un lavoro personale, lavoravo direttamente con una ONG e la mia unica necessità era raccontare la vita di queste persone a bordo della nave e le varie fasi dell’operazione. Tra l’altro, fortunamente, nelle due occasioni in cui sono stato a bordo dell’Aquarius, non è successo alcun evento tragico.
Tornando al progetto più ampio che stai seguendo, The Idea of Europe, ce ne parli?
È un lavoro che sto portando avanti da due anni: per me è una sorta di ricerca e di sguardo critico sull’impatto della crisi migratoria e sulla tenuta dell’Unione Europe come istituzione; l’impatto sulle frontiere e sui confini, che proprio a seguito di questo flusso di persone senza precedenti hanno cambiato il loro significato.
Da questi presupposti ho iniziato a fotografare questi luoghi, partendo da Ventimiglia, un esempio chiaro di frontiera che funziona a seconda di chi deve passare, poi Lampedusa, che oggi ha cambiato totalmente funzione e significato rispetto a due anni fa: prima era il punto effettivo di approdo di queste imbarcazioni, oggi la situazione è cambiata, le persone arrivano a Lampedusa per una volontà politica — ho parlato prima dell’impossibilità per queste imbarcazioni di arrivare fino alle coste dell’isola.
Tra tutti i luoghi di confine che hai visitato hai trovato per caso un comune denominatore?
A dire il vero un comune denominatore non c’è. Ci sarebbe anche, ma si tratta di un ossimoro, perché il vero denominatore comune è che ogni frontiera è un mondo a sé. L’Italia, su questo fronte, sta facendo un lavoro insostituibile. Io sono sempre stato molto critico sulle politiche migratorie, ma bisogna dare atto che senza gli sforzi dell’Italia sarebbe una ecatombe assoluta. Per quanto riguarda gli altri paesi le posizioni sono sempre diverse e a volte divergenti. Quando ho fatto questo reportage dai paesi della rotta Balcanica, l’ho potuto notare chiaramente: al cambiare delle posizioni dei governi, in tema migrazione cambiavano anche i luoghi di passaggio e di transizione. Questo simboleggia l’assoluta mancanza di coerenza delle politiche migratorie, non solo a livello europeo ma anche all’interno dei singoli governi.
C’è un messaggio che ti piacerebbe lanciare?
No, io non voglio lanciare nessun messaggio. Avere successo nel mio ambito professionale significa far sì che le persone abbiano qualche elemento in più per riflettere. Quando riesco in questo intento allora sono soddisfatto.
Laureato in Scienze della Comunicazione, Marco Panzetti (Bergamo, 1981) è un fotografo freelance di base a Barcellona (Spagna). Il suo lavoro fotografico è incentrato su tematiche contemporanee legate a questioni identitarie, migrazioni, ingiustizia sociale e sviluppo, e indaga in profondità comunità, storie ed eventi generalmente poco rappresentati o travisati dai media tradizionali. Il suo lavoro è stato ampiamente esposto in Spagna e in Italia, ed è apparso su numerose pubblicazioni internazionali di prestigio.