Diaframma è la nostra rubrica–galleria di fotografia, fotogiornalismo e fotosintesi. Ogni settimana, una conversazione a quattr’occhi con un fotografo, e tutti i giorni una foto nuova su Instagram, per scoprire il suo portfolio. Questa settimana abbiamo parlato con Wawrzyniec Kolbusz e del suo progetto Sacred Defence, in cui esplora una città costruita apposta per realizzare film di guerra; da qui una sua riflessione sul linguaggio dei media e dell’immaginario bellico.
Ciao Wawrzyniec. Cominciamo dal luogo: come l’hai conosciuto?
Mi sono imbattuto in luoghi particolari e legati al mondo del cinema leggendo alcuni libri di storia della cinematografia iraniana, in particolare quelli dedicati agli anni ’80-’90; la location in questione è un vero e proprio set cinematografico permanente, costruito esclusivamente per girare film di guerra. Sono sempre stato interessato a temi come la finzione, il simulacro, ma quando mi sono imbattuto in questo spazio, che serviva esclusivamente come luogo-immagine di guerra, sono rimasto meravigliato. In qualche modo, si può trovare un legame con le teorie di Baudrillard sul segno e sul simulacro, questioni legate alla guerra e dunque alla politica, altro soggetto cui sono molto interessato.
Questa città-cinema, nei pressi di Teheran, fu costruita per girare film sulla guerra Iraq-Iran, un conflitto internazionale dimenticato, costato la vita a circa un milione di persone tra il 1980 e il 1988. L’Iran venne attaccato dall’Iraq, anche per mezzo di armi chimiche sganciate sui civili: fu un evento traumatico per gli iraniani, tanto quanto la Seconda guerra mondiale lo fu per gli europei. Quello che venne dopo quegli anni fu la necessità di una ripresa nazionale, realizzando diversi elementi che potessero ricordare gli anni trascorsi, in parte anche grazie al cinema.
Questa città-cinema è accessibile?
Per entrare bisogna ottenere un permesso speciale, e questo richiede diverso tempo: nonostante si tratti di una location che include una sorta di set cinematografico, bisogna tenere presente che è sotto il controllo dell’autorità militare. Vi sono stati girati diversi film, e tuttora viene utilizzata.
L’introduzione al progetto recita “we are looking at illusions”; ci puoi spiegare meglio questo aspetto?
Tutto quello che si vede in queste immagini può richiamare nell’immediato una scena di guerra o le conseguenze che questa può provocare, ma è pura illusione: è un paesaggio di guerra del tutto artificiale. Trovo interessante che una città venga progettata solo per essere fotografata e per diventare un’immagine di guerra. Le fotografie del progetto riprendono spazi esterni, di paesaggio, ma non solo: alcune immagini mostrano degli interni, specchi rotti da proiettili, luoghi che rappresentano una classe di scuola andata distrutta durante operazioni militari.
Tutto è perfettamente simulato.
Il livello qualitativo delle realizzazioni è eccellente. Hanno pensato perfino alla sabbia depositata sull’arredamento. Tutto è perfettamente simulato. Tutte le ricostruzioni, peraltro, sono state create basandosi su immagini fotogiornalistiche. C’è un continuum in termini di rappresentazione: prima c’è stata la guerra vera e propria, che è stata in seguito ripresa dai fotogiornalisti; sulla base di questo materiale sono stati ricostruiti questi luoghi, a loro volta fotografati da me in questo progetto.
Ma nel tuo progetto non ci sono solo spazi e costruzioni.
Esatto, ci sono anche diversi ritratti e, ancora una volta, non si tratta di persone reali, ma di statue di cera. Ho ripreso anche alcuni oggetti, tra cui le mine antiuomo, modellini di plastica. Ho trovato molto bizzarro che le vendessero come souvenir: ho pensato a coloro che le acquistano per esporle poi, immagino io, in casa o in ufficio. Un livello di assurdità che poi di fatto trova alcune spiegazioni.
Cioè?
La prima ragione è profondamente legata alla cultura iraniana, dove c’è una retorica legata a ingannevoli richiami all’arte e alla letteratura dei secoli passati nella produzione contemporanea, e nel loro modo di vivere. La seconda ragione, per me più importante, si rispecchia nella politica attuale, una politica che fa leva su eventi storici e traumatici della storia del Paese per procurare maggiori consensi all’attuale regime. Non in tutti i casi chiaramente, ma questo è il motivo principale per cui molti dei film girati in questo luogo sono di stampo propagandistico. Così anche i musei, che sono guidati da organizzazioni molto vicine al governo.
C’è da rilevare come questa sorta di bizzarria non sia soltanto parte dell’Iran. Noi – o meglio, i nostri governi, intesi come Occidente – spesso facciamo la stessa cosa. Un esempio su tutti è la questione legata alla costruzione di testate nucleari: nonostante molti esperti sostengano che i siti individuati in Iran non siano per scopi militari, o per lo meno che non si tratti di siti dedicati alla costruzione di armi nucleari, veniamo bombardati da immagini satellitari che hanno lo scopo di indicarci che quei luoghi, quelli che volta per volta ci vengono mostrati, fanno effettivamente parte di un programma militare. In questo modo il messaggio che passa è molto semplice: “abbiamo l’autorizzazione a poterli attaccare.”
Come hai affrontato questa tematica nello sviluppo del tuo progetto?
Ho voluto mettere in dubbio questa pratica. Per questo motivo ho inserito immagini satellitari, mostrate in forma di dittico: si tratta di una veduta del sito nucleare di Natanz. Ho acquistato queste immagini dalle stesse fonti che utilizzano i think-tank americani. Dato che l’agenda di queste istituzioni è quella di creare e far circolare immagini di questo tipo al fine di innescare un maggiore supporto politico per un conflitto militare in Iran, ho provato a realizzare la medesima cosa, semplicemente utilizzando gli strumenti della fotografia al posto degli aerei.
Ce lo spieghi?
Essendo questo un progetto che parla di finzione, e che vuole mettere in dubbio alcune pratiche e metodologie di stampo politico, ho prodotto due versioni dello stesso evento in maniera tale che una escludesse l’altra. Si possono vedere, in maniera alternata, una reciproca esclusione, una falsa prova dello stesso ipotetico evento.
Wawrzyniec Kolbusz è un fotografo polacco. Nelle sue opere si dedica ai temi della finzione, agli aspetti legati all’immagine e a come questa solleciti lo spettatore a seconda dei casi. Il suo interesse artistico si muove attorno ai temi sociali, politici e culturali, in una chiave di lettura concettuale, spesso utilizzando un linguaggio minimalista in termini espressivi e comunicativi.
Per ricevere tutte le notizie da The Submarine, metti Mi piace su Facebook