La Biennale di quest’anno è “Viva Arte Viva”: un percorso che dovrebbe, da locandina, condurre lo spettatore attraverso il più intimo ed essenziale tra i nodi che riguardano la produzione artistica, l’artista in sé. Peccato che Christine Macel, la curatrice, a mio avviso, non ci sia riuscita. Per fortuna, ci sono le installazioni di Lorenzo Quinn: Support, una metafora di salvezza per Venezia e, di sicuro, un bel salvagente per la Biennale 2017.
Arsenale e Giardini, per quanto siano il punto di riferimento del pellegrinaggio, non riescono a convincere fino in fondo. Certo, per una volta, l’artista sembra al centro di tutto, per una volta niente politics, economics, marxism, o altre tematiche sociali. Peccato che ad alcuni artisti manchi quel centro di gravità permanente promosso — e promesso. C’è stato un guadagno nell’intrattenimento, questo è sicuro: la maggior parte delle installazioni o delle performance lasciano stampato un conato stendhaliano di prim’ordine — ma è proprio questo il problema: quello che doveva essere un cammino verso l’atelier dell’artista, anche per mie forse sciocche aspettative, si rivela qualcosa di radicalmente diverso.
In breve: se vi aspettate di entrare nella viva arte, per esempio, di John Waters, oppure di dialogare platonicamente — stile Sense8, di questi tempi — con Pauline Curnier Jardin, lasciate perdere. Non credo che sia possibile, nonostante il tentativo. Eppure, malgrado queste considerazioni, che potrebbero anche sembrare eccessivamente rigide e unilaterali — le boutade di uno stronzo insomma — altri artisti sono stati in grado di aprirsi a un umanismo fuori discussione, come per esempio Liu Ye o le fotografie di Dirk Braeckman per il Belgio.
Ma forse, prima e al di là di tutto, rimane fondamentale quanto resta fuori dal recinto – Giardini, Arsenale e i vari padiglioni sparsi per la città – e cioè quella bestia che non si fa domare, che non sta al gioco e che, forse, raccoglie più sguardi. E quest’anno, quel raging bull che se ne sta in disparte è Support di Lorenzo Quinn.
Mercato di Rialto, sono circa le 23 di venerdì 12 maggio. Qualcuno ha finito da poche ore di lavorare, di vendere il pesce fresco, calamari, gamberi rossi, polipi, di vendere verdure, tra cui dei fantastici cuore di bue, e qualcun altro, invece, solo quel giorno, ha finito di installare, proprio di fronte al molo dove attraccano gondole nere per turisti e piccoli motoscafi fuori norma, due enormi, bianche e poderose mani che, dalla laguna, sorreggono Ca’ Sagredo.
Classe 1966, figlio di Anthony Quinn e di Jolanda Addolori, dopo una breve immersione nel mondo del cinema — con tanto di premio come migliore attore al Film Festival di Biarritz per il suo Dalì — l’artista italoamericano decide di avvicinarsi alla scultura. Alle spalle l’ombra di Michelangelo, del Bernini, Jean-Baptiste Carpeaux e Rodin, davanti a sé la genesi dell’opera: prima la scrittura, anche in versi, poi gli schizzi, il modello in scala e, infine, la plasticità di ciò che noi comuni mortali abbiamo la possibilità di vedere, il lavoro nella sua finitezza.
Prima New York, poi la pubblicità per la Absolut Vodka. Nel 1994 lo Spirito: un Sant’Antonio per il Vaticano; nel 2005 è in Qatar con due sculture per inaugurare l’Aspire Academy for Sports Exellence, poi il progetto Evolution a Londra tre anni dopo e, infine, il lavoro di una vita, tutt’ora in corso, “The Globe of Life”: una fenomenologia scultorea degli istanti più salienti della storia dell’uomo.
Sono passati 23 anni da quando papa Giovanni Paolo II ha battezzato la sua scultura in piazza San Pietro. Qui, ora, non c’è alcun Papa che offici un’omelia — malgrado ce ne siano addirittura due — c’è solo il riflessivo movimento delle acque sporche della laguna: e un battesimo migliore, visto il progetto, Quinn non poteva trovarlo. “Ogni mano pesa circa 2.500 kg.” L’artista aggiunge che ognuna di esse si regge su pilastri, che penetrano per quasi 12 metri nel canale. Sono le mani di suo figlio.
L’idea è nata un anno fa, quando gli venne in mente di realizzare qualcosa che potesse rappresentare, senza troppe difficoltà, i problemi legati ai cambiamenti climatici — ciò che per lo staff di Trump è una sorta di complotto degli ambientalisti e altre sciocchezze del genere — ma, soprattutto, potesse far pensare alla precarietà di Venezia e della sua arte. Che, come riporta lo stesso Quinn, “ha ispirato le culture per secoli, ma per continuare ad essere così ha bisogno del supporto della nostra generazione e di quelle future, perché è minacciata dai cambiamenti climatici e dal decadimento provocato dal tempo.”
L’inaugurazione vera e propria è stata il 13 maggio. Quelle mani terranno simbolicamente in piedi Ca’ Sagredo e Venezia fino al 26 novembre, quando la Biennale chiuderà. Le mani che ora vediamo esposte sembrano solide, inscalfibili, monolitiche, qualcosa di opposto, per esempio, alle mie, scheletriche e senza un muscolo, e nonostante tutto quelle braccia svaniranno, le nostre, mi auguro, no.
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