Abbiamo intervistato l’autore del blog Un Vegetariano a Milano, che recensisce e raccoglie opinioni su ristoranti milanesi, vissuti però con l’occhio di chi ha smesso di mangiare carne.
Con un discreto seguito e social ugualmente attivi, conosciamo Matteo, autore e ideatore. Che ha come unico diktat per recensire i posti in cui va a mangiare l’amore per il buon cibo.
Quando sei diventato vegetariano e perché?
Sin da ragazzino ho sempre avuto un approccio emotivo nei confronti degli esseri viventi in generale, da qui un interesse anche per il mondo dell’ecologia e il rispetto dell’ambiente. A un certo punto ho proprio deciso che non volevo mangiare gli animali. Per quanto avessi sempre mangiato con gusto la carne e, soprattutto, il pesce. Poi dall’effettiva realizzazione di questo obiettivo sono passati diversi anni, un po’ per pigrizia, un po’ perché essere onnivoro era una soluzione più comoda. Per quanto da onnivoro sapevo che quello che mangiavo una volta era stato un essere vivente e che probabilmente non aveva avuto come obiettivo ultimo quello di finire in un piatto. Ma era un’abitudine.
Era una questione a cui comunque ero sempre stato sensibile.
Mi sono poi reso conto di cosa volesse effettivamente dire quando ho avuto un coinquilino vegetariano. Una serie di indizi mi hanno fatto rendere conto che anche per me la questione non era indifferente. Come quando tornavo a casa con la carne comprata al discount e mi mettevo a cucinare la salsiccia, che inondava tutta la casa del suo odore per due giorni di fila. O quando preparando un risotto mi ponevo il dilemma se usare il dado di carne o no, chiedendomi se se ne sarebbe accorto o meno. Pian piano quello che per me prima era semplicemente un pezzo di carne ha cominciato a mostrarsi come quello che effettivamente era, ossia un animale. In quel momento è scattato qualcosa e decisi di provare anche io a smettere di mangiare carne. Anche perché convivendo con una persona che non ne mangiava mi resi conto che ciò non significava mangiare solo un’insalata scondita, ma che esistevano varie alternative interessanti. Ed era comunque un mangiare che dava soddisfazione. Decisi di fare tre mesi di prova: niente carne, in maniera integerrima. Quella prova andò bene e da allora ho continuato così.
Perché pensi che tanta gente storca il naso alla parola “vegetariano”? Esiste ancora un “tabù”?
C’è un atteggiamento che sicuramente fa leva su una questione morale e in un’epoca come la nostra dove nei social ognuno può insultare chi gli pare sicuramente ci sono dei toni “accesi.” Io sono iscritto a un gruppo Facebook per vegani, che è molto utile per scambio informazioni per prodotti senza carne e alternative “vegan friendly.” Non nascondo però che molto spesso ho un certo riserbo a commentare alcuni post perché vedo che certi membri hanno un atteggiamento decisamente intransigente. Sicuramente il loro modo di comunicare la propria scelta può risultare passivo-aggressivo. È anche vero, però, che sull’altro versante c’è un atteggiamento altrettanto estremo, come quando si vedono sui social foto di maiali sgozzati associati ad hashtag #porchettalove o #fuckyouvegan. Perché una cosa del genere non viene quantomeno giudicata insensibile o irrispettosa?
Un altro esempio che mi viene in mente è quando vedo sui social un post sponsorizzato da una marca che produce prodotti da mangiare per onnivori e che però lancia un prodotto vegano. Magari, all’interno del gruppo di persone selezionate come target di riferimento verso cui indirizzare la pubblicità, rientrano persone che magari vegane non sono e in un attimo si leggono commenti polemici e aggressivi. Allora mi chiedo perché non si abbia la semplice coscienza del “vivi e lascia vivere.”
Perché hai aperto un blog?
Partiamo dal fatto che amo mangiare e spesso vado fuori a cena o a pranzo. Vivo in una città che offre tantissima scelta e sono una persona sempre curiosa di provare posti nuovi. Andando spesso fuori mi sono reso conto che mi sarebbe piaciuto in qualche modo annotare le mie impressioni e un blog su dove si potesse mangiare vegetariano in luoghi onnivori a Milano effettivamente non esisteva. Da lì poi è nata la cosa. Sicuramente questo mi ha incentivato a provare qualche posto nuovo in più.
Inizialmente volevo creare una mappa dove indicare tutti i posti dove venisse offerta una valida alternativa vegetariana. Ma non la trovavo comoda come soluzione grafica, perché ci tenevo a segnalare anche le mie impressioni. Così ho aperto un blog, dove ho cominciato a raccogliere recensioni. La cosa bella è che poi molte persone, anche non vegetariane, hanno provato i posti che consigliavo.
Sono molto felice che il blog venga recepito come fruibile per tutti. Alla fine io amo mangiare e il motivo per cui l’ho aperto è fondamentalmente questo. L’idea che sia un blog per tutti e che crei l’opportunità di un punto di incontro fra persone che hanno abitudini alimentari diverse mi piace molto.
Ci sono delle zone di Milano in cui ti concentri particolarmente e, se sì, pensi che esistano delle zone maggiormente “vegetarian friendly”?
Diciamo che il quartiere veg-friendly per eccellenza risulta sicuramente essere Porta Venezia, vedo che sempre di più si sta aprendo formalmente a questa tendenza. Abitandoci, devo dire che non mi dispiace. Come zona è sempre stata comunque tra le più propense: via Panfilo Castaldi è la sede del Joia di Pietro Leeman, il primo Chef vegetariano stellato, super buono e altrettanto costoso, che però ha cominciato a fare a pranzo il bistrot, con prezzi più accessibili. Così come in una via poco distante c’è il Mantra, il ristorante crudista. C’è sicuramente una buona dose di “fighettitudine” in questa tendenza e molti esperimenti non so dire se andranno avanti o sono solo trend del momento. Ma di sicuro è una zona che presta terreno fertile. D’altro canto mi sono molto infastidito quando ha aperto sotto casa mia un locale da cocktail bar, ma che faceva anche brunch, con un approccio molto modaiolo e moderno, che però non aveva più che un’offerta di crudité e humus per chi non mangia carne. Calcolando la zona (Porta Venezia, modaiola e fighetta ma soprattutto veg-friendly) e i prezzi (nulla di regalato), sono rimasto abbastanza stupito che nel 2016 aprisse un locale del genere senza calcolare di offrire un’alternativa vegetariana. Un altro retaggio culturale è quello legato al fatto che a mangiare vegano si spenda una fortuna. Da qualche anno la catena Mens Sana per esempio, offre a pranzo e cena un’alternativa assolutamente accessibile e comunque buona e saporita.
Esistono dei siti o blog di riferimento che utilizzi?
Il sito migliore che ho trovato è tedesco, si chiama Alles Vegetarisch: il mio primo ordine ho dovuto farlo con il traduttore automatico di Google chiedendomi “chissà che cavolo sto ordinando,” poi hanno per fortuna creato l’interfaccia in lingua inglese.
Da un po’ di anni a questa parte, complici programmi televisivi e social, c’è una grande diffusione di foodblogger e passione per il cibo. Credi che questo comporti anche una maggior sensibilità a voler mangiare meglio e in maniera più consapevole? O è solo una moda?
Secondo me c’è un segnale positivo, nel momento in cui, al di là di tutte le fighettitudini di cui il mercato è capace, si trovano esempi di ristoranti che offrono un’alternativa vegana, fregandosene allegramente delle mode e delle zone della città. Per esempio, c’è una pizzeria tra viale Monza e via Padova piuttosto a nord, che si chiama Il Papiro che è la prima pizzeria vegana di Milano. Se entri è la tipica pizzeria a gestione egiziana, che non vuole rendersi “catchy,” ma dove puoi mangiare la “mozza-risella” al posto della mozzarella, il pesce e la carne di seitan. Queste cose mi fanno pensare che ci sono dei segnali forti.
Una volta, imbattendomi in un coupon che titolava “Fruttariano in Porta Venezia” — che ho poi in realtà scoperto essere a Dergano — sono finito in una discoteca che si chiama Sound of 70’s (e ha un sito bellissimo n.d.r.), che è gestito da una signora, ai tempi sicuramente regina del sabato sera, ma che ha deciso di trasformare il locale durante la settimana in un ristorante a cucina fruttariana, che è tra l’altro un approccio alla cucina decisamente più fondamentalista, in una realtà di paese o meglio di periferia cittadina.
Come hai vissuto Expo? Quanto è stato positivo secondo te per una maggiore diffusione della coscienza critica di ciò che mangiamo?
Sono stato a Expo molte volte perché ci ho lavorato, avevo la libertà di entrare senza code e questo mi ha permesso di sperimentare ogni volta un luogo diverso dove mangiare, ho fatto qualche recensione, anche se adesso non hanno più di tanto valore, dato che si trattava solo di ristoranti temporanei — con un’unica piacevole eccezione: il ristorante messicano Besame Mucho che ha trovato una casa in zona Porta Nuova, dove sono stato e devo dire che ha una fascia di prezzo non particolarmente accessibile ma è molto buono ed è comunque un esempio positivo di come Expo abbia saputo lasciare qualcosa alla città.
Rispetto all’obiettivo iniziale, non so quanto sia stato raggiunto, ma sicuramente ha diffuso una maggiore sensibilizzazione tra chi era già ricettivo a questo tema. Tuttavia, dal punto di vista propriamente vegetariano, penso che sia stato un po’ un’occasione mancata. In sei mesi di esposizione, alla cucina vegetariana è stato dedicato un solo giorno, in cui tutti i padiglioni mostravano le loro alternative culinarie. Per tutto il resto della manifestazione, nulla. Diciamo che se il tema era “nutriamo il pianeta” nel 2015 qualche riflessione più ampia si poteva fare. Secondo me un buon lavoro è stato fatto dal padiglione Slow Food, dove si cercava di comunicare tutta una serie di alternative sull’alimentazione.
Qui a Milano quale posto ti ha stupito di più?
Ormai vedo che il numero dei luoghi che offrono alternative vegetariane sta crescendo sempre di più. Per esempio Nabi, che un tot di sere a settimana fa l’hamburgheria vegana, o NuN, che oltre a fare ottimi kebab offre dei falafel decisamente gustosi. Ho poi trovato molto interessante l’offerta del ristorante di Mare Culturale Urbano, dove hanno pensato a un menù, “Radici,” tutto a base vegano ma cucinato con un approccio italiano popolare, dove quindi mangi piatti poveri della tradizione italiana dei primi del Novecento, che però sono vegani, non tanto per scelta ma perché mangiavano quello che avevano. È anche un bel concetto di riscoperta delle origini — che altro non sono se non quello che mangiavamo, mangiamo e mangeremo.
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